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Mare fuori, dentro a un'aula

Non c'è cosa più difficile da definire di ciò che faccio professionalmente e non c'è cosa più semplice da qualificare di ciò che sono professionalmente: un privilegiato.

No, non c'è alcun posto sicuro, ma l'eterno precariato di chi costruisce oggi l'incarico di domani e quasi non si capacita per quanto interesse ci sia per ciò che fa. Non c'è nemmeno la ricchezza, tantomeno la gloria. C'è il contatto con un'umanità quanto mai vasta e varia.

A più riprese e con maggiore intensità nel post - covid, sono stato catapultato a fare scuola a chi nella scuola non rimane. Sì, io entro nelle aule che ospitano, spesso loro malgrado, "i ragazzi drop out", quelli che non riescono a seguire un percorso scolastico nell'età dell'obbligo formativo e che, quasi come se questo avesse senso solo per loro, vengono avviati ad un percorso professionalizzante. Saranno addetti di cucina, falegnami, parrucchieri, muratori, ma il sistema non li vuole solo capaci di fare un lavoro, bensì muniti di una cultura generale minima. Ecco, io in quei contesti sono "il prof di scienze". Ho un programma che dovrei seguire, cosa che cerco di fare, e di fronte a me ragazzi, talora ragazze, che tutto vogliono tranne sapere ciò che dovrei insegnargli. In fondo, è la mia fortuna: è grazie a questo che riesco a fare scuola a loro insaputa coltivando, tirando calci a un pallone, costruendo oggetti, guardando un film, andando al supermercato o all'orto botanico e, perché no, sedendomi con loro al bar. In definitiva, il contenuto scientifico è ovunque e la scienza è un metodo per guardare e studiare il mondo. Non serve amarlo, ma capire che può aiutarci nel quotidiano Non sono uno scienziato e non c'è motivo per cui dovrebbero diventarlo quei ragazzi.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un post su Facebook in cui qualcuno, non ricordo chi, diceva che avrebbe voluto essere l'insegnante di Samantha Cristoforetti, l'astronauta. Ecco, mentre lo leggevo ho pensato che i miei incarichi di "prof di scienze per ragazzi drop out" sono un grande privilegio. Non dubito del fatto che Astrosamantha abbia incontrato insegnanti fantastici e bravissimi, ma dubito fortemente che senza di loro avrebbe avuto una vita diversa. Lei non è mai stata una ragazza da salvare, casomai è la ragazza che ci salverà. Lo fa semplicemente ispirandoci. 

La vera sfida è aiutare a salvarsi gli adolescenti che incontro nelle aule dei già citati corsi "per drop out". Sono ben convinto che scienze non li aiuterà, ma nutro la speranza che in quelle ore possano trovare un appiglio, l'idea che il sapere non sia qualcosa che ti misura di fronte al mondo, ma che ti colloca in quel mondo. Un mondo non facile che li ha già respinti prendendo in carico chi ce la fa e confinando loro in gruppi nei quali si concentrano una o due decine di quegli studenti che, spesso, averne due in classe è considerato un disastro. Eccoli lì: gli sfigati buttati fuori dal sistema scolastico che devono trovare un modo per primeggiare tra apparenti meno che mediocri. Dico apparenti perché, quelle volte che riesco ad agganciarne uno, mi rendo conto delle loro enormi lacune, ma anche di potenzialità che sono rimaste inespresse. E' come se a loro mancasse la formula matematica (vi assicuro che spesso non hanno alcuna base) per rendere concreto un fenomeno fisico che sanno tranquillamente maneggiare. Hanno visione di gioco, ma sono senza le scarpe giuste per il campo in cui si svolge la gara. Spesso hanno, però, esperienze di vita, quasi sempre tutt'altro che facili, che ne fanno dei Matusalemme al confronto sia dei coetanei sia dei docenti.

Le ore di lezione con loro non sono facili, tutt'altro. Possono, anzi, diventare un vero inferno: lunghe mezz'ore in cui ti chiedi chi te lo ha fatto fare di accettare quell'incarico. Così, almeno, è stato nelle mie prime esperienze. Be', forse dovrei definirle le mie prima "inesperienze". Già, perché non c'è alcun passato di formatore o insegnante che ti venga facilmente incontro quando hai di fronte 15 ragazzi, di cui 10 oppositivi, 5 che sembrano persi al mondo e qualcuno di loro ben indirizzato verso quelle disavventure che ti portano davanti a un giudice. Ah, non dimentichiamo che alcuni non parlano l'italiano in modo adeguato all'età e alle richieste del corso e che, non poche volte, vengono da contesti culturali lontani da quello del "prof" e di molti compagni di corso. Il mix è potenzialmente esplosivo e, in effetti, capita di veder brillare i fuochi d'artificio.

Ho sempre posto l'attenzione sul lato umano della vicenda, ma da qualche tempo è arrivata una serie TV a farmi riflettere, a darmi uno sguardo diverso. Si tratta di "Mare fuori", una serie che racconta le vicende di ragazzi e ragazze che finiscono nell'IPM (Istituto Penale per Minori, il carcere minorile) di Napoli. Potrebbe essere uno qualsiasi, ma i destini di chi vive nella città della sirena Partenope si svolgono attorno a temi e vicende che aggiungono un ineguagliabile fascino alla narrazione. Al netto del costrutto televisivo, degli stratagemmi comunicativi, delle forzature rispetto alla realtà, ciò che mi colpisce è il racconto delle vicende che hanno portato in carcere i vari protagonisti. Mi piace e mi affascina perché, in definitiva, le storie, la stessa fisionomia e la personalità dei vari Carmine, Chiattillo, Edoardo, Viola, Pino, Naditza, Ciro non sono diverse da quelli dei "miei" studenti "drop out". Sono solo ragazzi e ragazze normali che la vita pone in situazioni che, spesso, non ti lasciano scelta o, almeno, nascondono la migliore laddove nasce il conflitto con l'educazione che ricevi, la famiglia, gli amici e tutto ciò che è il tuo mondo. 

"So’ crisciut’ mmiez’ ‘a via, ‘o sacc’ chell’ ch’ m’aspetta. Nu guaglion’ do sistema, mo’ vuo’ sistema’ ‘utt’ cos’. Mmiezz’ ‘a via e’ megl’ ‘a tene’ fierr’ o accattar’ ‘e ros’. Patm’ sta carcerat’, so ll’omm’ ‘e cas’" dice la canzone della sigla

"Sono cresciuto in mezzo alla strada, e so bene quello che mi aspetta: un ragazzo nato dal sistema, che vuole sistemare tutte le cose; che vive in mezzo alla strada e ha la pistola in mano. Mio padre è in galera ed io sono l’uomo di casa", tradotto per chi, come me, si incanta ad ascoltare il napoletano senza capirlo.

Vivere in mezzo alla strada con la pistola in mano è ciò che non capita ai ragazzi con cui lavoro. Già, perché ho omesso di dire che faccio "il prof" in Toscana, prevalentemente tra le province di Lucca e Pisa. Non mancano né le strade né le pistole o i coltelli e qualcuno dei ragazzi che incontro potrebbe averne fatto vario uso. Non mancano nemmeno la droga, la bassezza dell'umanità, la tentazione e la necessità di delinquere, il disagio, l'emarginazione o il pregiudizio, ma parliamo di zone dove, fortunatamente, il vivere civile è quieto e ispirato alla legalità. Tuttavia, c'è un rischio che incombe dal quale i corsi di cui sto parlando tengono distanti chi li segue. Puoi essere svogliato, irriverente, mancante di rispetto, minaccioso o pericoloso, ma in quelle ore te ne stai lontano da ciò che potrebbe risucchiarti in un vortice che in due minuti ti rovina la vita per sempre, incontri adulti pieni di difetti, ma che ti propongono un modello di vita in cui la prosocialità è una condizione presente. Può essere sottotraccia, mal interpretata o gestita, ma c'è. Alla fine, "quello stronzo del Prof" dimostra che c'è una via alternativa ai modelli che alimentano il suddetto vortice. C'è, in più, qualcuno che dissemina il tuo tempo di appigli culturali, di buoni motivi per non aderire ai modelli negativi o per farlo più per gioco che per convinzione, spesso munito delle competenze che ti fanno deviare prima che sia troppo tardi. 

Ecco, io guardo quei ragazzi e quelle ragazze e mi chiedo cosa ne sarebbe in altri contesti, in luoghi in cui il crimine è un modello positivo o, almeno, un'apparente opportunità per trovare un tuo posto nel mondo, nella società. O, ancora, dove del crimine potresti essere vittima da un momento all'altro. Esserne vittima per diventarne il protagonista, come accade a molti dei ragazzi di Mare Fuori che, a ben vedere, non avevano la stoffa del criminale, ma si sono trovati a indossarne gli abiti. Guardo i ragazzi con cui lavoro e capisco che sanno o possono capire da soli come salvarsi, ma hanno bisogno di incontri fortunati per farlo e in questo i corsi in cui lavoro sono un tempo giusto, un tempo della vita in cui possono aggrapparsi agli appigli offerti dagli adulti coinvolti dal sistema della formazione. 

Spesso guardo quei ragazzi e osservo come loro guardano noi adulti e questo mi dà una chiave di lettura su di me, eternamente in cerca di un equilibrio tra il rispetto della forma imposta dal sistema regionale della formazione, un mondo in cui l'identità digitale vale di più di una pacca sulla spalla data al momento giusto o di una parola di conforto, e quel poter essere generatore di appigli per chi potrebbe scivolare e cadere. E' una responsabilità enorme e, al tempo stesso, il privilegio di cui parlavo in apertura. Responsabilità e privilegio che mi convincono a affrontare argomenti trattabili con metafore che parlano della vita, ad usare la Legge di Liebig per spiegare il ruolo del singolo nei gruppi e nella società, a trattare con sufficienza Darwin e Linneo per spiegare che le differenze tra umani sono risorsa e che le razze non esistono, che il sapere può arrivare da un videogioco e che un video pornografico banalizza la più grande delle invenzione del mondo biologico: il sesso.

Ecco, chiusi in un'aula, camminando in un parco, su di una terrazza o tra i corridoi di un supermercato provo a far capire ai ragazzi che incontro che "ce sta o' mar' for'", anche quando sembra di stare dietro le sbarre. Potrebbe non servire a niente, ma intanto salvo me stesso per poterci essere per gli altri. E tanto mi basta.




Un'idea di natura

Questo post è tratto da una più ampia pubblicazione denominata Orti e giardini nelle scuole e nei servizi educativi frutto di un incarico professionale solidale col quale l’autore Emilio Bertoncini ha potuto affrontare le difficoltà economiche scaturite dalle restrizioni all’esercizio della propria attività dovute all’emergenza Covid-19. Per saperne di più: www.ortinellescuole.it 

Quand’è che siamo immersi nella natura? Sì, in quale contesto abbiamo la sensazione di “stare nella natura”? In altri termini, cosa è la natura? Come accade per molti altri temi, tendiamo a dare una risposta senza aver chiara la definizione o, addirittura, senza che sia possibile darne una univoca e stabile nel tempo. Probabilmente, la stessa domanda posta ai miei figli e ai miei nonni avrebbe risposte molto diverse perché l’idea di natura e la stessa considerazione che se ne può avere sarebbero molto diverse nei due casi.

Molto spesso, però, la domanda ci evoca spazi verdi, la campagna, le foreste, giusto per rimanere nelle situazioni con cui più frequentemente ci confrontiamo. Credo che sia piuttosto remota una risposta come “mi sento in natura nel bel mezzo di un’area industriale abbandonata”. Tranne chi ha la fortuna di frequentare il mare aperto, i ghiacci polari o il deserto, spesso identifichiamo la natura con il colore verde e su questo tornerò. Ora però sento il bisogno di esternare una mia grande difficoltà: la mia laurea in scienze agrarie e il mio essere guida ambientale determinano uno strano sguardo su ciò che la maggior parte delle persone identificano come spazi naturali. Per me le campagne, le aree forestali e pure quelle selvagge di gran parte dei continenti non hanno molto di naturale. Riconosco, certo, che alla base di tutto ci sono alcuni assetti riconducibili a fatti naturali, cioè estranei alle intenzioni umane, come la natura geologica di un territorio, ma mi è generalmente impossibile non notare l’azione dell’uomo. Provo a spiegarmi meglio con alcuni esempi.

Quando mi trovo nelle splendide campagne del Chianti, una delle aree più famose della Toscana, regione in cui abito, vedo un paesaggio deciso dagli umani. Il vigneto e l’oliveto sono impianti produttivi introdotti per mano dell’uomo. Il bosco è lontano parente di una foresta originaria, ma è rimasto nelle aree in cui coltivare sarebbe stato più difficile e le sue caratteristiche dipendono grandemente dagli interventi umani e dalle tecniche di coltivazione attuali o passate. Lo stesso eventuale abbandono della sua gestione è frutto di una scelta dovuta ai cambiamenti dell’economia globale. Del resto, i vigneti esistono perché gran parte degli umani dispersi sul pianeta che bevono alcolici apprezzano proprio i vini di queste zone. Senza i bevitori del vino, i vigneti del chianti sparirebbero. Come dice Wendell Berry (Berry, 2009-2015), mangiare è un atto agricolo (io credo che sia addirittura un atto politico) e da esso dipende grandemente il paesaggio di molte regioni del mondo.

Se provo a spostarmi in Garfagnana, porzione montana della provincia di Lucca, mentre cammino lungo “I sentieri del Moro”, che io stesso ho contribuito a far nascere, pur trovandomi immerso nel verde e nella foresta, non riesco a non percepire l’impatto dell’uomo. I castagni tra cui mi aggiro sono arrivati lì più di mille anni fa per scelta umana e lì sono stati coltivati (e in parte lo sono ancora) per rispondere ai fabbisogni alimentari della popolazione. I boschi in cui stanno evolvendo dopo l’abbandono sono frutto di una scelta ben precisa dettata da qualche malattia vera e propria, come il mal dell’inchiostro e il cancro del castagno, e di uno stravolgimento dell’economia globale, quello in cui la mia famiglia è passata da un’agricoltura di sussistenza all’emigrazione in altri territori per abbandonare del tutto il lavoro agricolo. Questo quando non sono arrivate pinete e abetine, spesso fuori posto, frutto di rimboschimenti. In zona ci sono alcune cerrete che sembrano inspiegabili. Sì, boschi di querce, in particolare cerro, rimasti laddove si sarebbero potuti piantare castagni per produrre la farina di neccio (nome locale con cui è indicata la farina di castagne - oggi è una DOP – denominazione di origine protetta). L’inspiegabilità è solo apparente: si trattava di boschi destinati a produrre le ghiande per l’alimentazione del maiale, una delle fonti di proteine e grassi animali più utilizzate fino a qualche decennio fa. Quei boschi di querce, la cosa più vicina al cerreto-carpineto diffusamente indicato per l’area nella mappe della vegetazione forestale potenziale, non sono lì in quanto semplice e normale componente naturale, ma per una precisa esigenza e scelta dell’uomo. Lo stesso accade quando vado in gita in Liguria e riconosco i paesaggi terrazzati delle Cinque Terre nati per coltivare la vite e produrre il vino, quando cammino per le sterminate distese di cereali della Puglia o della Basilicata, quando mi muovo sulle dolci colline umbre e marchigiane, quando osservo la laguna vagando per le isole di Venezia o quando osservo le terribili immagini delle foreste venete e trentine distrutte dalla tempesta Vaia: vedo di continuo l’azione dell’uomo e non riesco a sentirmi “in natura”, per quanto stia osservando un’azione competente e, talora, sapiente dei miei consimili. Arrivo, addirittura, al paradosso delle aree protette: laddove cerchiamo di rispettare e tutelare la natura, essa è più libera di essere se stessa per nostra scelta! Qualcuno mi dice, però, che in certe aree montane e remote l’azione dell’uomo non c’è o è modestissima, quindi lì c’è la natura. So di essere un po’ pignolo, ma trovare un territorio senza l’azione intenzionale dell’uomo è assai difficile e, quando sembra essere assente, è solo perché dei limiti oggettivi non ci hanno permesso di andare oltre. Se su certi pendii alpini ci sono le foreste, nelle quali si riconoscono forme d’uso e scelte selvicolturali, non è perché la natura è rimasta libera dall’uomo, ma perché la massima trasformazione tecnicamente ed economicamente possibile è stata, fino ad ora, quella. Le metropoli non nascono in montagna solo perché è più semplice ed economico costruirle altrove!

Prima di andare avanti nel ragionamento, intendo soffermarmi su un fatto che riguarda l’accessibilità della natura utilizzabile in chiave educativa. L’idea di natura comunemente intesa, per chi si occupa di educazione ha un terribile difetto: è distante, spesso irraggiungibile o raggiungibile solo in circostanze speciali, come le uscite didattiche che, in molti casi, si sono fatte sempre più rare e costose. Stando così le cose, è assai difficile che possa entrare a far parte del setting educativo. Abbiamo, quindi bisogno, di una natura più vicina, una natura di prossimità con cui poterci confrontare nel quotidiano in modo concreto e reale (Ciabotti, in Modello Agrinido di Qualità). L’idea comune di natura, però, sembra indicare la necessità per le scuole e i servizi educativi di spostarsi lontano dalla loro collocazione più comoda, cioè nei pressi di borghi e città, spesso semplicemente nel quartiere.

È possibile cambiare il nostro sguardo sulla natura per avvicinarla a noi? Provo a farlo con un esempio. Hai mai visto una pianta che cresce dove noi umani non la vorremmo? Un’erbaccia che cresce sul marciapiedi o in mezzo al cortile, un fico nato sulla facciata o sul tetto di un edificio, quell’enorme ailanto che si affaccia dai ruderi del capannone? Se fai mente locale ti verranno in mente piccole “foreste” erbacee sullo svincolo autostradale, capperi che crescono sulla facciata delle chiese e vecchi opifici invasi da tentativi di bosco. Forse, ricorderai anche qualche servizio giornalistico che durante il lockdown dovuto all’emergenza Covid-19 ci raccontava dell’erba che tornava a crescere nelle piazze delle città, come nella bellissima Piazza del Campo di Siena. Cos’è quella, se non la natura, almeno nella sua accezione biologica, che cerca riappropriarsi dei propri spazi? È per questo che spesso dico che una piantina che cresce dove non l’abbiamo mai pensata, dove a noi sembra impossibile che possa sopravvivere, dove non vorremmo che crescesse, è la massima espressione della natura. Bastano un seme o una spora e il manifestarsi delle condizioni idonee a germinare, eventualmente anche senza la prospettiva di accrescimento futuro, e la vita prova a partire, a portare la natura anche dove noi l’abbiamo spazzata via. La vita, la natura, fanno con quel che c’è, colgono le possibilità che si presentano. In tutto questo non c’è una splendida metafora per chi fa educazione? Come possiamo educare? Nei modi che ci sono possibili, non in quelli che consideriamo ottimali, ma non abbiamo a disposizione. Si educa cogliendo le possibilità che si presentano. Aggiungerei anche lavorando affinché le possibilità aumentino sempre di più e non escludo che la natura già lavori in questa direzione.

A questo punto del ragionamento ho bisogno dell’aiuto di due grandi pittori: Vincent Van Gogh e Paul Gauguin. È in un loro dialogo nel film “Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità” che una sera di qualche anno fa, in un cinema milanese, è arrivata la soluzione al mio dilemma, alla discrasia tra il mio modo di vedere la natura e quello che alberga nel senso comune e, spesso, nel mondo educativo. Ecco le parole che Paul rivolge all’amico Vincent:

Senza i nostri occhi non esiste natura.

E nessuno vede il mondo allo stesso modo.

Se le cose stanno così, la natura non esiste, è solo una nostra definizione e “la natura” nasce nel momento in cui il nostro sguardo si muove con quella definizione. Il punto è che ognuno di noi ha una propria idea, una propria definizione di natura e, allora, essa può essere tante cose diverse. Dal momento che nel mondo educativo e didattico lavoriamo con bambini e ragazzi, c’è da chiedersi cosa sia secondo loro, come si possano mettere insieme definizioni diverse e cosa vedano i più piccoli, ancora non contaminati dalla distinzione tra “naturale” e “artificiale” che viene introdotta durante la scuola primaria. 

A me piace andare oltre e immaginare cosa potrebbe accadere mettendo la definizione di artificiale nella testa di un’altra specie. Provo con il castoro e mi immedesimo in cucciolo orgoglioso del lavoro di mamma e papà che costruiscono vere e proprie dighe. Forte della definizione di “artificiale” centrata sulla mia nuova specie di appartenenza, quelle dighe sono artificiali. So però che ci sono altri animali capaci di costruire dighe sul pianeta: gli umani. Li ammiro molto, anche perché le loro dighe sono altissime. E del tutto evidente, però, che le loro dighe, essendo quelle costruite da animali, sono naturali!

Forse devo tornare con i piedi per terra, anzi nelle zampe degli umani, e provare a procedere con più attenzione. È per questo motivo che voglio trascrivere alcuni brani del libro “Una seconda natura” di Michael Pollan.

Ecco il primo.

(…) la rosa non solo indossa i colori del nostro spirito, ma li contiene. Le rose sono state così a lungo coltivate, incrociate e reincrociate affinché rispettassero i nostri ideali, che ormai è impossibile separare la loro natura dalla nostra cultura.

Secondo il ragionamento di Pollan, la rosa, una pianta che ci dona i fiori, per noi massima espressione di ciò che è natura, è inscindibile dalla nostra cultura e, probabilmente, non abbiamo esitazione nel dire che ciò che è cultura è artificiale.

Il secondo.

L’abitudine a contrapporre grossolanamente natura e cultura non ha fatto che crearci problemi, problemi dei quali non ci libereremo finché non avremo sviluppato una percezione più complessa ed elastica della nostra collocazione nella natura.

Devo confessare che il ragionamento di Pollan si fa intrigante: c’è bisogno di rivedere la nostra collocazione nella natura, non al di fuori o in contrapposizione con la natura!

Eccoci al terzo brano.

E, infine, stiamo parlando di natura o di cultura quando raccontiamo di una rosa (natura) che è stata selezionata (cultura) in modo che i suoi fiori (natura) inducano gli uomini ad immaginare (cultura) il sesso delle donne (natura)? Forse è di questo genere di confusione che avremmo più bisogno.

La confusione tra ciò che è cultura, quindi artificio, e ciò che è natura, semplificata e amplificata nel rapporto tra umani e rosa, tra la specie più egocentrica che io conosca e la pianta che più fortemente si è fatta plasmare per raggiungere, come molti altri vegetali, lo scopo di portare il proprio DNA ovunque sul pianeta (Mancuso, 2017), sembra segnalarci che, almeno in qualche caso, è proprio impossibile distinguere le due cose, se non sulla base di definizioni di comodo valide di volta in volta.

Ancora un brano, il quarto. Breve.

Il giardino indica che forse esiste un luogo dove noi e la natura possiamo incontrarci a metà strada.

E il quinto, ancora riferito al giardino.

(…) un luogo con una lunga esperienza su interrogativi che hanno a che fare con l’uomo nella natura.

Pollan ci sta forse suggerendo che abbiamo bisogno di contesti, e il giardino potrebbe essere uno di quelli, per ricollocarci nella natura? È su quello che dobbiamo lavorare? È lì che dobbiamo interrogarci per risolvere la questione di cosa è natura e cosa non è natura?

Forse, Pollan dà un ultimo suggerimento proprio sul finire del libro.

Forse anche la natura incontaminata ha bisogno di una cornice, del contrasto con l’artificio umano.

Se le cose stanno così, la domanda chiave con cui ho aperto questo paragrafo potrebbe essere capace di dirci che, ritrovando il nostro ruolo nella natura, anche l’artificio che siamo in grado di produrre ci consente di capire meglio la natura in cui viviamo.

È questa una risposta? No, non lo è. Ne è mia intenzione dare una risposta. Quello che, al termine di questa riflessione, vorrei potesse accadere in ognuno di noi, soprattutto in coloro che si occupano di educazione, è il tentativo di dare una propria risposta, possibilmente divergendo rispetto all’idea di natura che ci hanno consegnato la scuola e la nostra società, per le quali natura è tutto ciò che non è artificiale, come se la distinzione fosse semplice. Un’idea di natura, quindi, per me è quella che scaturirà da ogni ulteriore riflessione capace di portarci oltre nel ragionamento.

Prima di chiudere il paragrafo, però, voglio aggiungere un pensiero e, per farlo, torno a mio figlio Diego, il cavernicolo digitale. Che rapporto c’è tra la sua natura e la natura? Che idea ha o può farsi della natura? E come posso influire su quella sua idea, sul rapporto tra l’ecosistema digitale in cui si trova a proprio agio e l’ecosistema fisico in cui vive? Ovviamente, non ho le risposte a tutte queste domande, ma c’è un aspetto che, in qualche modo, mi consente di spostare il ragionamento da me e mio figlio a chi si occupa di educazione, soprattutto di educazione all’aperto, e i bambini: perché far vivere ai cuccioli degli umani del XXI secolo esperienze in natura e di natura, magari quella addomesticata e di prossimità del giardino della scuola, del servizio educativo o del parco cittadino? E quali rischi si corrono quando ci si sente adatti, quando si viene da esperienze di vita in cui stare all’aperto, a contatto con la natura, la natura come la intendiamo noi, è la normalità? Tra me e Diego questa cosa è diventata caratterizzante la nostra relazione educativa e non posso negare che ho dovuto lottare un po’ con me stesso per evitare di pensare che lo stare all’aperto fosse l’esperienza migliore per lui. Mi è sembrato, anzi, impossibile che non fosse di suo gradimento, che non lo entusiasmasse. Poi ho capito che non stavo rispettando il suo diritto di essere se stesso, diverso da me. È in quel momento che ho potuto cambiare prospettiva: proporgli esperienze in natura e di natura è dargli l’opportunità di conoscerle, di sperimentare altro rispetto a ciò in cui sa immergersi da solo. È un’occasione, forse unica, di consentirgli di scegliere, di non vedere un’unica possibilità. E non sarà scegliere tra ecosistema fisico e virtuale, tra tecnologia e natura (come se fossero in antitesi), ma quanto queste e altre possibilità conteranno nella sua vita. Se quanto accade tra me e lui può accadere tra chi si occupa di educazione all’aperto e i bambini, forse dobbiamo davvero interrogarci sul motivo intimo e profondo per cui lo facciamo, su come la nostra natura e la nostra idea di natura possano mettersi al servizio dei bambini, più che rispondere a bisogni dell’educatrice o dell’educatore che c’è in noi.


Se vuoi, alcune riflessioni contenute in questo paragrafo puoi ascoltarle a questo indirizzo: https://youtu.be/aO1pd3ilRds 



Bibliografia


AA.VV. - Regione Marche, Fondazione Montessori, Modello Agrinido di Qualità

https://www.regione.marche.it/Portals/0/Agricoltura/AgricolturaSociale/agrinido/Agrinido.pdf 

Berry Wendell (2009), Mangiare è un atto agricolo, Lindau Editore, Torino 2015

Mancuso Stefano, Plant revolution, Giunti Editore, Milano 2017

Pollan Michael, Una seconda Natura, Adelphi edizioni, Milano 2016


Pionieri del tempo educativo che è e che sarà

Alcuni giorni fa ho scelto l'immagine che troviamo qui a destra per un intervento formativo svolto per il Centro Studi Bruno Ciari di Empoli (FI). Si è trattato del terzo di tre incontri dedicati alle pratiche di educazione all'aperto per gli operatori dei centri estivi in fascia 3-6. Proprio da quell'immagine è scaturito in me il pensiero che provo a tradurre in questo post.

L'intero ciclo formativo, così come altri svolti in parallelo per le fasce di età superiori e un altro dedicato ai materiali naturali svolto per la fascia 0-6 del mondo educativo, ha trovato una naturale collocazione nel chilometro zero educativo. Tuttavia, in alcuni frangenti mi sono spinto oltre o, quantomeno, ho dilatato il chilometro zero facendo mia l'idea che non si tratti di un parametro geometrico, ma di un territorio delle opportunità educative del quotidiano. E' per questo che ho scelto la fotografia di due bambini sul treno, testimonianza di uno straordinario anno educativo di qualche tempo fa.

Cosa c'entra quella foto col titolo dell'articolo?

Provo a partire da lontano, quando il 4 di marzo tutta l'Italia ha scoperto che quello sarebbe stato l'ultimo giorno di apertura della scuola e dei servizi educativi per un periodo prima determinato in circa due settimane, poi prolungato fino a divenire indefinito grazie (si fa per dire) ad una serie di provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Qualcuno nelle regioni settentrionali aveva, a dire il vero, già iniziato la propria avventura in un tempo sospeso in cui l'infanzia e l'educazione paiono, per mio parere, aver visto sospeso ogni diritto e spazio.

Abbiamo dovuto attendere giugno per poter vedere ripartire qualcosa, segnatamente i Centri Estivi da animare nel rispetto di nuove e inedite linee guida governative poi declinate in vario modo a livello regionale. Prima per i bambini dai tre anni in su, poi (finalmente!) anche nella fascia 0-3.

La prima lettura delle linee guida ha determinato molte impressioni, ma non è di questo che intendo parlare, salvo accennare al fatto che la forte spinta verso l'educazione all'aperto ha, di fatto, tolto ogni alibi e timore a chi ancora ne aveva. In particolare, ha tolto significato alla domanda "se un bimbo si fa male quando siamo fuori, come giustifichiamo il fatto che eravamo usciti?". Io quella domanda non l'ho mai capita, visto che educare e insegnare sono cose che si fanno nel mondo, non dentro scatole in muratura, ma ora la risposta esiste anche sul piano giuridico "perché le linee guida per la prevenzione della pandemia Covid-19 dicono di privilegiare l'educazione all'aperto". Chiusa questa parentesi, però, voglio riflettere su cosa è accaduto dal 15 di giugno, data prima della fatidica ripartenza delle azioni educative attraverso i Centri Estivi: di fatto, da quel momento, chi opera nel mondo educativo, inteso a tutto tondo, è divenuto un pioniere.

E chi è un pioniere? Il primo dizionario on-line comparso dopo la mia ricerca nel web dice che si tratta di uno "scopritore o promotore di nuove possibilità di vita o di attività, collegate specialmente all'insediamento e allo sfruttamento relativo in terre sconosciute". Sì, chiunque abbia progettato e avviato un'esperienza educativa a partire da questa estate è entrato nelle terre sconosciute dell'agire educativo post-covid-19. Dico "post" non per intendere che l'epidemia sia completamente superata, cosa di cui nessuno può avere certezza e su cui ognuno può avere dubbio, ma perché quel 4 di marzo ha cambiato completamente e per sempre le carte in tavola, non solo per la nostra vita in generale, ma soprattutto per il mondo educativo. Quale sia questo cambiamento è, probabilmente, cosa ancora da capire, ma ci sono alcuni riferimenti non trascurabili.

Prima di tutto, è cambiato il quadro giuridico e, fatto non trascurabile, è cambiato attraverso regole incerte e deboli. Non abbiamo, infatti, nuove leggi, ma provvedimenti di legge che si trascinano dietro delle linee guida, strumenti indubbiamente utili, ma non capaci di dare riferimenti certi e forse nati per porci in quello stato di necessaria analisi dei rischi che è, al tempo stesso, opportunità e limite. Non si può, però, dire che il quadro giuridico sia lo stesso. Da un paio di settimane, siamo così a confrontarci con le nuove linee di condotta e con la realtà, soprattutto nello 0-6, dove le necessità di relazione per svolgere l'azione educativa difficilmente possono escludere, senza avere ripercussioni sulla vita futura dei bambini, il contatto fisico. Ecco che, proprio mentre scrivo, molti si staranno confrontando con l'attrito che c'è tra il presupposto scientifico e teorico del distanziamento fisico e la realtà relazionare dell'educare. Tolte di mezzo, infatti, le proposte educative che si fondano sul contatto fisico, rimane la natura per lo più incontrollabile di mammifero dei nostri cuccioli e, diciamolo pure, di coloro che si dedicano all'educazione.

Ma c'è, a mio avviso, molto di più: noi siamo cambiati. I mesi del lockdown, le misure di distanziamento e gli stessi termini che lo hanno etichettato (distanziamento sociale e non fisico), le nostre esperienze con la malattia, il pressing delle news, ora catastrofiche, ora tranquillizzanti, e il modo in cui ognuno di noi ha potuto vivere i giorni di maggiore restrizione delle libertà costituzionalmente garantite ci hanno profondamente segnati. E' accaduto agli adulti, ma anche ai bambini. E' accaduto in modi che, forse, ancora non riusciamo a comprendere e che solo studi e ricerche approfonditi potranno caratterizzare. Io provo a darne una misura con un piccolo aneddoto collegato al mio coinvolgimento in un campo estivo. Ligio alle regole, ho indossato la mascherina per tutto il tempo della mia presenza e nessun bambino e o bambina ha in qualche modo manifestato una reazione a quel mio volto parzialmente coperto. Niente di nuovo per loro che stanno vivendo con la consueta naturalezza un nuova normalità. Niente di nuovo per loro, forse nemmeno niente di buono per loro. Ma questa è una mia sensazione. Ciò che conta è che, se potessi tornare indietro di 365 giorni e dovessi presentarmi in analoghe condizioni in un centro estivo dell'estate 2019, le cose andrebbero sicuramente in altri modi e quel mio volto coperto sarebbe in grado di generare reazioni ben diverse da quelle del 2020. Anzi, credo che per molti genitori quel volto parzialmente coperto oggi sia diventato un segno di sicurezza, un gesto di cura e rispetto verso i bambini, mentre nel 2019 sarebbe stato letto come una minaccia, come stimolo a chiedersi cosa non va nella salute di Emilio.

Qualcuno ha già vissuto tempi come questi? Probabilmente, in Italia no. Ecco che, nostro malgrado, siamo in una terra sconosciuta in cerca di nuove possibilità. Diamoci il benvenuto da pionieri e viviamo questo momento!

C'è, però, un'espressione usata piuttosto frequentemente, spesso usata anche da me, che recita più o meno così: "quando torneremo alla normalità". Non c'è niente di male nell'utilizzarla, ma mi chiedo cosa intendiamo per normalità. Io credo che, se per normalità intendiamo quello che c'era prima del marzo 2020, al massimo, potremo tornare ad una normalità giuridica. Immaginate una legge con la quale si dice "tutti i provvedimenti normativi assunti durante l'emergenza sanitaria Covid-19 sono abrogati". Ovviamente, non potrà essere così, ma proviamo a immaginarlo. Niente più distanziamento, niente più misurazione della temperatura corporea, niente più igienizzazione delle mani, niente di niente. Davvero questa magia giuridica ci restituirebbe "la normalità"? E' qui che entra in campo la foto che accompagna questo articolo, volutamente unica.

La ripropongo tal quale qui a sinistra e provo a raccontarla. Quei due bambini fanno parte di una sezione dei 5 anni di una scuola dell'infanzia e si trovano sul treno su cui sono saliti a Lucca diretti a Firenze. Vivranno una giornata bellissima e dai molteplici significati educativi, ma ancora non lo sanno. A me preme, però, osservarli in questo momento e pensare che, al netto di qualche raccomandazione preventivamente data a tutti i bambini, nel momento in cui ho scattato la fotografia li percepivo al sicuro. Non solo, l'invio della foto nella chat di Whatsapp ai genitori scaturì una grande approvazione e nessuno si preoccupò minimamente per la loro salute. Osservo con struggente malinconia quell'immagine e mi chiedo, quando davvero ogni restrizione di legge sarà superata e torneremo alla normalità giuridica pregressa, sempre che possa accadere, quanti adulti saranno in grado di non avere timori vedendo quei bambini. Quanti tra educatori, insegnanti, genitori non si porranno domande o non saranno assaliti da timori igienico-sanitari inesistenti prima del marzo 2020? E quanti bambini saliranno sul treno senza alcun "nuovo" timore? Inutile dire che una risposta a quelle domande non ce l'ho, ma che il mio timore massimo è che non si possa rispondere "Emilio, ma di quali domande e timori parli?". Già, se non siamo più gli stessi oggi, non saremo più gli stessi nemmeno domani.

Rifletto allora sul tempo educativo che sarà e a preoccuparmi non sono le linee guida che abbiamo o che avremo, in fondo solo strumenti con cui cogliere opportunità, ma il cambiamento avvenuto in noi. Ecco che se oggi viviamo in una terra sconosciuta in cerca di nuove possibilità con l'idea di attraversare una landa per arrivare altrove, il nuovo mondo sarà davvero un'altra terra sconosciuta in cui andare in cerca di nuove possibilità. Saremo, cioè, nuovamente pionieri.

La mia riflessione si ferma qui. Io non riesco, per ora, ad andare oltre, se non ponendomi due domande a cui non so rispondere e con le quali saluto chi ha avuto la pazienza di leggermi:

- abbiamo tutti ben compreso che siamo e saremo pionieri nel tempo educativo che è e che sarà?

- abbiamo le competenze per assumere collettivamente questo ruolo?


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Se hai voglia di mandarmi una riflessione in merito a questo, puoi scrivermi a info@emiliobertoncini.com


Tre letture di ispirazione durante il lockdown

Leggere è crescere, formarsi, volare e molto altro. Nei primi giorni del lockdown per me è stato anche qualcosa di difficile, quasi impossibile. Credo sia stata una reazione a ciò che stava incombendo, con la sua componente di incertezza e paura. Pian piano, però, quella della vita casalinga, pur mitigata dalla fortuna di avere un giardino, è divenuta una dimensione accettabile e leggere è tornato possibile. Anzi, leggere è diventato tornare a formarsi, a modificare atteggiamento mentale, a cercare stimoli per modificare i miei comportamenti futuri, sebbene in un contesto dai contorni del tutto ignoti. La pila di libri che attendevano di essere letti da tempo mi ha dispensato tre belle letture, tre testi di ispirazioni per chi, come me, si occupa di piante, di ambiente e di educazione. Per questo li presento volentieri.

Andando in ordine cronologico, la lettura con cui ho iniziato è "La resilienza del bosco" di Giorgio Vacchiano. Leggerlo è stato come mettere un punto al termine di una frase e ripartire. Per chi, come me, ha studiato agraria con un’insolita attenzione alle foreste, le ha frequentate per diletto, per lavoro (quante aree di saggio!) e per professione (sono pure sempre una guida ambientale!) è stata un’occasione per rispolverare tante cose note, ma anche per scoprirne di nuove. Questo anche perché negli ultimi decenni il mondo delle piante e delle foreste è stato oggetto di sguardi nuovi e di molte scoperte. Giorgio Vacchiano è molto bravo nel portare sul piano divulgativo le nuove scoperte, nel mescolare tratti di vita con approfondimenti scientifici, nel portarci nel proprio vissuto e nelle proprie osservazioni. Anche nel dimostrare come uno studioso, un pensatore, non possa mai distinguere tra un tempo di lavoro e uno di riposo. Ma c’è di più: leggendo diventa più chiara la fitta ragnatela che ci lega alla vita delle foreste, all'importanza del nostro sguardo verso di esse, alle conseguenze dei nostri gesti quotidiani sul destino del pianeta. Si fa più chiaro il ruolo della scienza che "non potrà mai dirci cosa fare, ma può e deve fornirci gli strumenti per leggere un mondo in costante cambiamento, in cui ogni elemento (compreso quello umano) è strettamente connesso a tutti gli altri", in cui "cultura e natura, uomo e ambiente, crisi climatica e diritti umani sono in realtà due facce di uno stesso, unico sistema".

Uscito dal bosco resiliente di Giorgio Vacchiano, mi sono avventurato ne "La Nazione delle piante" di Stefano Mancuso. Ancora non so se si tratta di un libro sulle piante o scritto, per mano del suo autore, dalle piante. Di sicuro, leggendolo si impara molto sui vegetali, su come siano organizzati, individualmente e socialmente, in modo diverso dal nostro e tremendamente adeguato per sopravvivere sul pianeta ben più di Homo sapiens ("il nome della nostra specie", ci dice l'autore, "descrive immediatamente la principale caratteristica che ci contraddistingue: la presunzione"). I capitoli del libro sono una dissertazione ragionata e colta, ma sempre facile da leggere, degli articoli di una vera e propria costituzione scritta dalle piante. Si (ri)scopre, così, come cloroplasti e mitocondri potrebbero essere nientemeno che organismi viventi indipendenti divenuti parti costituenti della cellula eucariote come esito finale di una simbiosi. Il tutto mentre le piante ci consigliano di cooperare e di lasciare le reti di comando verticistiche per passare a quelle diffuse, decentralizzate e reiterate secondo moduli capaci di mantenere un'autonoma efficacia. Come nel libro di Giorgio Vacchiano, anche in questo si viaggia, ma non solo sul pianeta: i licheni, per esempio, ci accompagnano nello spazio con un razzo Soyuz per dimostrare che un alga e un fungo cooperanti riescono a sopravvivere per due settimane del vuoto siderale. Intanto, vacilla anche qualche mia convinzione basata su un'idea di probabilità. Ciò perché, come dice in modo convincente Stefano Mancuso, quell'idea di vivere su uno dei tanti pianeti abitati dell’universo che da sempre mi accompagna potrebbe aver bisogno di una revisione. Tutti noi "potremmo benissimo essere dentro una bolla formata dai beneficiari di un enorme, incommensurabile, colpo di fortuna. La sola bolla formata da esseri viventi nell’universo. L’unica bolla, in altre parole". La più preziosa.


Se questi due libri sono contemporanei, ricchi di informazioni e generatori di nuovi sguardi sulla vita intesa in senso biologico, sulla natura, sulle foreste e sul futuro del pianeta, "Una seconda natura" di Michael Pollan, unico non scienziato tra i tre autori, viene dal passato, dagli ormai lontani anni novanta, ma tra i tre è il libro che ti fa chiedere "perché non l’ho letto prima?". Pollan è avvincente anche quando sembra perdersi nella scrittura di un capitolo da cui riemerge con la forza di riflessioni che ti lasciano di stucco, che recuperano ogni infinitesimo particolare precedentemente descritto per catapultarti verso un radicale cambio di sguardo sul rapporto tra umanità e natura, tra cultura e natura. In questo modo, si sovverte la tradizionale contrapposizione per arrivare a capire che è solo un equivoco che è necessario superare per vedere natura e cultura come parte del medesimo racconto. Così un catalogo di semi diventa la prova inconfutabile che, mentre siamo convinti di usare le piante nel nostro orto o giardino, in realtà siamo solo un mezzo che i vegetali usano per diffondere i propri geni sul pianeta, che nessuno, nemmeno nel mondo delle piante, è alieno e straniero, che siamo noi a coltivare ciò che definiamo erbaccia, che più che alla foresta dovremmo forse guardare al giardino per delineare un futuro in cui cultura e natura coesistono fuori da un possibile scontro tra umanità e natura. E, ancora, scopriamo come gli alberi siano divenuti simboli e depositari delle nostre metafore (allora perché non piantare un albero della pandemia?) e che dovremmo chiederci se "stiamo parlando di natura o di cultura quando raccontiamo di una rosa (natura) che è stata selezionata (cultura) in modo che i suoi fiori (natura) inducano gli uomini a immaginare (cultura) il sesso delle donne (natura)", fino a comprendere che "è di questo genere di confusione che avremmo più bisogno" nel nostro cammino verso il futuro, un futuro nel quale "forse anche la natura incontaminata ha bisogno di una cornice, del contrasto con l’artificio umano".

Sono state tre letture che, al pari della pandemia e delle restrizioni alle libertà, lasceranno il segno nel mio agire quotidiano, nella vita e nella professione, proprio come dovrebbero fare i libri che, nel nostro piccolo universo personale, meritano un posto nella libreria che porteremmo con noi nel viaggio verso un nuovo pianeta.


 


Casa con giardino - per un Eden figlio del lockdown

Non mi è chiaro se questo post sia destinato ad avere una natura professionale o se sia una semplice riflessione personale condivisa nel web. E non so nemmeno in quale giorno abbia avuto inizio il ragionamento che cerco di mettere per iscritto.

So che da bambino ho avuto la fortuna di crescere in una casa della campagna lucchese che aveva attorno un fazzoletto di terra malandato e fantastico per le mie esperienze educative non scolastiche. Era malandato perché la mia famiglia non aveva un'idea particolarmente evoluta di giardino, perché l'origine contadina e montanara dei miei genitori trovava negli spazi verdi utilità non troppo urbane, perché la casa stessa stava crescendo ed era in perenne costruzione, quindi le energie per il giardino non c'erano.

Quel fazzoletto di terra, però, era ricco di opportunità e me ne resi conto molto presto. Era un laboratorio in cui sperimentare situazioni che a scuola sarebbero diventate la fisica, la chimica, le scienze biologiche e motorie e molto altro. Era uno spazio in cui scorrazzare con la bicicletta, in cui stare con gli amici, in cui si piantavano alberi senza una regola, in cui cresceva l'orto, in cui scorrazzavano amici e animali.

Non era uno spazio esente da minacce per la sua stessa esistenza. Ero un bambino negli anni '70 e un ragazzino negli anni '80. Anni in cui si sognava e si soffriva, come in tutti decenni della storia, ma anche anni terribili in cui la modernità afferiva a molte delle cose da cui oggi prendiamo le distanze. E da ragazzino imparai che quello spazio aveva bisogno di essere difeso. Difeso dall'idea di asfaltare tutto per renderlo "bello, funzionale e facile da tenere pulito". Difeso dalla variante "autobloccanti", nient'altro che un nuovo modo di pavimentare e togliere di mezzo il prato che, anche quando incolto, richiedeva manutenzioni. Difeso dall'idea di costruire un piccolo annesso, un garage, un ampliamento dell'abitazione e chissà cos'altro non ricordo. Ricordo, però, lo sguardo incredulo di mio padre che sperava nel mio entusiasmo per le novità, per le opportunità e che mi trovava sempre in dissenso. Una contrarietà che, di tanto in tanto, si esprimeva con un "avrò bisogno di un giardino per i miei bambini". In effetti, così è stato.

Intanto la mia vita, anche professionale, si è sviluppata in modi assai strani. Mi sono laureato in scienze agrarie, ho seguito un corso di perfezionamento in Parchi, giardini e aree verdi, ho accumulato tomi sulla progettazione e gestione del verde, mi sono avventurato nel mondo educativo arrivando ad essere un esperto di "orto e giardino educativo" e sono diventato padre. In tutto questo percorso ho amato e odiato il mio giardino, ho cercato di "correggerlo" facendo errori peggiori di quelli che cercavo di risolvere. Più cercavo di razionalizzarlo e più non riuscivo a cedere ad una strana abitudine di famiglia: piantare alberi dove non c'è spazio per gli alberi. Così ora in quel giardino ci sono due ginkgo biloba nati da semi raccolti dalle mie mani, un ciliegio trasportato nella sua gioventù in un'auto che non riusciva a contenerlo e un cipresso che sembra voler testimoniare l'unica scelta azzeccata e il passare del tempo. E poi tanta confusione agli occhi di chi spera in un giardino rispondente ad un qualche stile, ma nella quale leggo orgogliosamente tanta biodiversità. E, ancora oggi, tanta sperimentazione: è da lì che sono passati i miei tentativi di orticoltura urbana, dagli orti in contenitore a quello ispirato al sinergico.

Insomma, il "mio" giardino rimane un luogo incerto e confuso di sperimentazione, dai primi passi dei miei figli ai miei tentativi di approcciarmi a cose che mi appassionano o che cerco solo di scoprire, di conoscere meglio, dall'attesa per gli esiti di un intervento progettato allo stupore della bellezza che scaturisce dall'azione imprevedibile della natura. E' lo spazio in cui spesso ho cercato di sperimentare le funzioni del verde urbano (sì, perché la "mia" casa è in campagna, ma la recinzione del giardino è il confine netto tra lo stile di vita urbano e quello rurale, tra mondi che non sempre dialogano) così come potete trovare inquadrate cliccando su queste parole. Un laboratorio che da sempre considero importante, ma che in questi giorni di lockdown è diventato uno spazio prezioso in cui sperimentare le libertà residue nel regime di restrizioni imposte dal Governo Conte bis.

Per ironia della sorte, mi trovavo in giardino intento ad osservare una merla con cui ho quasi fatto amicizia quando, facendo un po' di scroll sui social, quando mi sono imbattuto nell'immagine che si vede qui sotto.


In un attimo ho rivisto tutta la storia del "mio" giardino, ma soprattutto quella di una battaglia che vedevo persa e avevo affrontato in sospeso tra un certo animo ambientalista e il mio sforzo professionale. Sì, perché a quel corso di perfezionamento è seguito il tentativo di contribuire allo sviluppo di una cultura del verde nel mio paese, l'Italia, ma dopo alcuni anni ho dovuto desistere di fronte alle resistenze culturali della comunità in cui vivo, al rifiuto generalizzato di far entrare le buone prassi del giardinaggio e delle scienze del paesaggio nel nostro quotidiano. Dopo anni di corsi fruiti e di docenze svolte per i soggetti più disparati, di tentativi di portare all'interno di aziende, cooperative ed enti almeno quel poco che conoscevo, un giorno, di fronte all'ennesimo scempio di alberature eseguito da una potente motosega sotto l'egida di un'istituzione, ho deciso che il mio contributo a quella causa era ormai esaurito, non più utile. Forse è anche per quella cocente delusione che mi sono dedicato al mondo educativo, a quei piccoletti che muovendosi in piccoli paesaggi e giardini potranno sviluppare una sensibilità nuova, capace di indirizzare il futuro.

Ma quell'immagine ha fatto molto di più in me: ha risvegliato un Emilio che, salvatosi dalla crisi da lockdown proprio in giardino (è lì che ho riseminato una parte del prato, continuato a coltivare l'orto quasi sinergico, girato video-saluti per i bambini dei nidi in cui lavoro, seminato ortaggi in contenitori, letto libri, fatto amicizia con la merla, pranzato, parlato, piantato e giocato con i miei figli, sognato, osservato le stelle e l'arcobaleno, l'alba e il tramonto, pianto, fatto ginnastica, distrutto buoni propositi di inizio pandemia, ideato "gli alberi della pandemia" e molto altro), è tornato alla vecchia idea che la qualità del vivere non può essere mero rispetto di requisiti minimi, come le superfici riservate al verde negli strumenti urbanistici, ma fatto culturale. Sì, ora più che mai è tangibile il fatto che ci sia l'occasione per far ripartire un pensiero deburocratizzato in cui le persone vengono prima di un comma di legge e di un'opportunità finanziaria, per porre i fabbisogni delle persone alla base della piramide del benessere, per porre il giardino, un giardino per ognuno, tra i diritti inalienabili dei bambini di oggi e di domani. Un giardino domestico, cittadino, scolastico che possa essere laboratorio per un nuovo modello culturale in cui le App dei dispositivi elettronici siano un complemento e uno strumento utile alla crescita culturale delle nuove generazioni, non il fine di un'esistenza o il sedativo di un cattivo vivere.

In fondo, potrebbe essere un ritorno all'Eden da cui molte tradizioni lasciano intendere sia iniziata la storia dell'umanità.

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"I giardini, in realtà, sono due: uno più o meno immaginario, l'altro pervicacemente reale. Il primo è il giardino dei libri e dei ricordi, quella vagheggiata utopia all'aria aperta, senza moscerini e sempre in fiore, dove la natura risponde ai nostri desideri e noi immaginiamo di sentirci perfettamente a nostro agio. Il secondo giardino è un luogo reale, a Cornwall, nel Coonecticut: circa due ettari di terreno collinare roccioso e difficile da gestire, per coltivare il quale mi sto arrabattando ormai da sette anni. Molto separa questi due giardini, tuttavia ogni anno li porto un po' vicini a coincidere."

Michael Pollan in "Una seconda natura"




Seminiamo e piantiamo con i bimbi più piccoli ai tempi del lockdown

Aprile 2020 - Le scuole e i servizi educativi sono chiusi a causa dell'epidemia di Covid-19 e molt* bimb* di età compresa tra 1 e 6 anni sono a casa con i genitori, privati di un esperienza educativa fondamentale.

Per questo motivo ho realizzato un video - tutorial che intende aiutare i genitori nello svolgimento di un laboratorio che mira a mantenere una connessione tra bambin* e natura.

Chi vuole può mettersi all'opera!




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Per saperne di più sulle attività di Emilio Bertoncini, autore del video, è possibile consultare i seguenti link:
www.emiliobertoncini.com
www.ortiscolastici.it
www.ortoalnido.it
www.giardinoingiro.it.
Potrebbero interessarti anche il tutorial di "Semina un Albero con Emilio", che si trova a questo all'indirizzo https://youtu.be/nx9MJH5ooKw, o #ilcompitogreen, che si trova all'indirizzo https://youtu.be/j_jmZg5HXow.



















Il compito green!


Marzo 2020 - Le scuole sono chiuse a causa dell'epidemia di Covid-19 e molti insegnanti mi chiedono consigli per affidare a bambin* e ragazz* della propria scuola un #compitogreen. 

Ad alcuni ho mandato un messaggio, con altri ho fatto una riunione via Skype. Alla fine mi sono detto che un video avrebbe potuto funzionare sia da strumento con cui affidare il compito, sia da tutorial per bambin* e ragazz*. 

Così è nato questo video che qualsiasi insegnante potrà usare a supporto della propria attività didattica.



Buona visione!





Oltre la soglia - pratiche di outdoor education

A causa del protrarsi dell'emergenza e dell'assoluta inopportunità di effettuare spostamenti sul territorio nazionale, l'evento viene rinviato a data da destinarsi.



Si svolgerà a Lucca il 21 marzo 2020 la giornata formativa dal titolo "Oltre la soglia - pratiche di outdoor education".


La tematica proposta si inserisce nel filone dell’outdoor education e riguarda la possibilità di cogliere le opportunità educative offerte dai materiali naturali, con particolare attenzione a quelli rinvenibili nei giardini dei servizi, nei parchi cittadini e nella natura di prossimità. Tutto questo invitando all'uso dei suddetti spazi all'aperto come luoghi di esperienza e a sostenere dinamiche di apprendimento e auto-apprendimento “in” e “con” la natura e i suoi materiali, sia in momenti di vita al nido/scuola/servizio, sia in attività con le famiglie.

Saranno trattati i seguenti argomenti:

- i luoghi di natura e la loro esplorazione con i bambini e le famiglie – strategie d’ingaggio dell’utenza tra sicurezza e avventura vissute in chiave pedagogica;

- i materiali naturali: incontro, scoperta, raccolta, uso e conservazione – dal magazzino creativo all’atelier diffuso, passando attraverso la biblioteca oggettuale a cielo aperto.

CARATTERISTICHE DEL CORSO

Destinatari: educatori e educatrici di nido e altri servizi educativi della fascia 0-6, insegnanti della scuola dell'infanzia; il corso è aperto anche ai coordinatori e alle coordinatrici pedagogiche e a chiunque interessato ai temi trattati.

Durata: 8 ore nella giornata di sabato 21 marzo 04 aprile 2020.

Orari: dalle 9.00 alle 18.30 con pausa pranzo tra le 13.00 e le 14.30.

Modalità: didattica frontale, momenti di discussione in plenaria, esperienze in esterno e laboratori pratici.

Sede: Nido d'infanzia "Il nido" - Via Nottolini, 350 Sede in corso di individuazione per evitare ogni rischio per i bambini del nido - Lucca  (a poche decine di metri dalla stazione ferroviaria)

Costi di partecipazione: € 90,00 (novanta/00) a persona. Per chi effettua la pre-iscrizione entro il 25/03/2020 la quota è ridotta a € 80,00 (ottanta/00) a persona. Per tutti coloro che abbiano già partecipato a un'edizione del corso dedicato a "orto e giardino educativo" erogato da Emilio Bertoncini è previsto uno sconto di € 10,00 (dieci/00) cumulabile col primo. La quota comprende: partecipazione al corso, dispensa, documenti e materiali utili per il lavoro forniti su pen drive del partecipante (da portare in occasione del corso) e rilascio dell'attestato di partecipazione. Sono esclusi dalla quota vitto, alloggio e quanto non specificamente menzionato. I pranzi sono a cura dei partecipanti.


Docente: Emilio Bertoncini, Agronomo e guida ambientale, ha vinto una menzione speciale dell'Agricoltura Civica Award 2013, il premio per le agricolture del futuro di AiCARE. Ha collaborato con la Regione Marche per il progetto Ortoincontro riguardante i temi degli orti urbani e scolastici. E’ stato coinvolto in vari progetti formativi e educativi connessi all'orto e al giardino per le Conferenze Zonali dell'Istruzione di Lucca, Pistoia e Valdinievole e per i comuni di Montale (PT), Quarrata (PT) e San Giuliano Terme (PI), nonché nella formazione delle educatrici dei nidi privati del Comune di Prato (PO) per il tramite di CEMEA Toscana. Negli scorsi anni educativo ha collaborato con i seguenti nidi: “Il nido” di Lucca, “Pinco Pallino” 1 e 2, “Arcobalocco” e "Le piccole canaglie" di Quarrata (PT), "I piccoli gufi" di Scandicci (FI) e "Golgi Redaelli" di Milano. E’ autore dei libri “Orticoltura (eroica) urbana” e “L'orto delle Meraviglie” e curatore di “Evviva l’orto che ci fa sporcare – la biodiversità agraria delle Marche entra a scuola” edito dalla Regione Marche. Collabora stabilmente con la rivista “Bambini” di Spaggiari editore.


Iscrizioni: da perfezionare entro le ore 20:00 del 25/03/2020 mediante versamento anticipato della quota di iscrizione. Il pagamento della quota avverrà tramite bonifico bancario al raggiungimento del numero minimo di iscritti.

Recapiti per informazioni e iscrizioni: per richiedere informazioni, ricevere il programma didattico dettagliato o effettuare le preiscrizione è sufficiente scrivere all'indirizzo info@emiliobertoncini.com

Orto o museo?

Le vacanze, si sa, sono un periodo interpretabile in molti modi. Per molti sono un momento di riposo, ma io non sono mai arrivato al loro termine riposato, anzi. Sono, però, un periodo in cui la mente riesce a distaccarsi dall'ordinario e a prestare attenzione al resto. Quest'anno le mie vacanze sono state guidate soprattutto dalla passione di mia figlia Luna per l'arte e dalla sua voglia di scoprire Amsterdam. Mi sono, così, detto che il tema portante della mia attività professionale, cioè l'orto visto in chiave educativa, didattica e sociale, avrebbe dovuto starsene alla larga dalle nostre intenzioni di visita.
E' andato tutto piuttosto bene finché non sono entrato nella reception di un albergo, per altro scelto sulla base di criteri assai lontani dal mondo degli orti. Mentre salutavo il signore che ci stava accogliendo, il mio sguardo è caduto su un volantino che ha immediatamente cambiato le successive 24 ore della vacanza. Si trattava del flyer promozionale del "Museum Garden Gaasbeek", posto a mezz'ora d'auto da Bruxelles.

L'orto/giardino in questione occupa uno spazio che già in passato ospitava i giardini del Castello di Gaasbeek, ma ciò che stupisce è la finalità per cui, qualche anno fa, è tornato a nuova vita: "This is a completely newly built garden, specially designed to suit its purpose as a museum garden". Sì, l'orto/giardino che possiamo visitare oggi è di nuova realizzazione e il suo scopo è quello di essere un museo. Un museo vivente!

Come recita il volantino, uno degli scopi del Museum Garden è quello di rendere consapevole la popolazione belga del ruolo e dell'importanza avuti dal Belgio nel campo dell'orticoltura e della coltivazione di alberi da frutto nel XIX secolo e fino alla Seconda Guerra Mondiale. Proprio per questo motivo, nel museum garden vengono coltivate varietà orticole e frutticole antiche e caratteristiche e, per gli alberi da frutto, come vedremo, le forme di allevamento sono davvero molto particolari e caratteristiche di epoche passate.

Per raggiungere i propri scopi documentativi e didattici il Museum Garden è articolato in varie aree funzionali che provo a descrivere secondo il mio percorso di visita evidenziando, caso per caso, gli aspetti che più mi hanno colpito. In tal senso, il primo e più importante elemento è il fatto che le specie orticole e frutticole sono coltivate e presentate in un contesto di vero e proprio giardino, quindi tenendo conto di aspetti estetici e di comfort, condizione che invoglia alla visita anche chi non ha un interesse specifico, come può essere il mio.

Subito dopo l'ingresso, svoltando a destra, si entra nell'ampia zona del kitchen garden. Qui troviamo in coltivazione un gran numero di ortaggi e fiori, soprattutto varietà di dalie, che sono mostrati nelle loro caratteristiche e che possiamo vedere, secondo l'epoca della visita, nella tipologia e nello stadio di sviluppo propri del momento. Questo ci parla di stagionalità di produzione, ma ci racconta anche che quando fu realizzato il giardino precedente fu fatta un'importante scelta in termini di localizzazione e sistemazione dello stesso. Il museum garden, infatti, si trova in una zona in cui le temperature invernali, a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, sono abbastanza miti e il sito scelto ha temperature mediamente superiori di alcuni gradi alla media della zona. Inoltre, i muri perimetrali del vecchio giardino assicurano protezione dai venti e riescono a funzionare come volani termici che accumulano calore durante le ore diurne per cederlo durante la notte. Vi si trovano, così, ortaggi comuni in coltivazione anche nelle zone mediterranee, sebbene di varietà adatte alle condizioni locali. E' possibile vedere a confronto alcune tecniche di coltivazione, come quella su terreno sarchiato, cioè regolarmente sottoposto a lavorazioni per controllare le erbe infestanti e rompere la crosta superficiale, e quella con pacciamatura di paglia, cioè ricoperto per ostacolare le malerbe e trattenere l'umidità. Sono, inoltre, mostrati alcuni accorgimenti tradizionali per proteggere le piante nelle prima fasi di sviluppo, come le mini-serre che si vedono nella fotografia qui sopra.

Un altro aspetto che spicca nella "collezione ortiva" è la biodiversità nel mondo degli ortaggi. Essa può essere apprezzata a vari livelli. In alcuni casi, ciò richiede una certa competenza nell'individuare, anche attraverso i cartellini esplicativi presenti nell'orto, le varietà di appartenenza di ortaggi appartenenti a una singola specie. In altri casi, come quello illustrato nella fotografia a lato, il colpo d'occhio ci racconta che dietro la parola "cavolo" ci sono piante diverse, vere e proprie specie distinte, e anche varietà diverse in seno alla stessa specie. Le forme e le colorazioni di queste piante rendono molto bene l'idea. In questo modo, anche chi non ha particolari competenze può apprezzare proprio l'idea di biodiversità agraria.

I pomodori sono per lo più protetti da una struttura temporanea che li copre per ridurre le bagnature dovute alle rugiade notturne e alla pioggia. E' lì che faccio una delle scoperte della mia mattinata di visita. Mentre osservo le diverse varietà, infatti, mi imbatto in un "tomato lichi": una pianta di pomodoro con le spine! Benedico Google e scopro che si tratta di Solanum sisymbriifolium Lam., una solanaceea (famiglia botanica cui appartengono patate, peperoni, melanzane e pomodori) affine al pomodoro che matura i frutti dentro una sorta di involucro spinoso. Nonostante sia segnalata una possibile tossicità di alcune sue parti e dei suoi frutti non maturi, i motivi di interesse sono altri. Il primo è che contiene una sostanza che li protegge da alcuni parassiti e che sono coltivabili in consociazione, cioè in abbinamento, con le patate per proteggerle dai nematodi (parassiti radicali). Il secondo è che sono anche coltivati come siepe stagionale spinosa e capace, quindi, di costituire un ostacolo per alcuni animali. Non male per essere "un pomodoro"! Ma c'è un aspetto interessante sul piano didattico: si propongono alcune soluzioni tecniche, come la copertura, e un nutrito set di varietà che forniscono anche al visitatore meno preparato e attento l'idea che dietro al gesto del coltivare ci sia, anzi ci debba essere, una competenza importante che è vera e propria cultura.

Superato il kitchen garden, si entra in una nuova grande "stanza" in cui il tema dominante sono i frutti. Vi si trovano sia alberi da frutto di specie diverse, dai peri ai fichi, dalle prugne ai meli, e piante a bacca o piccoli frutti. La loro collezione riprende un tema che ci ha già accompagnati del kitchen garden, così il berry garden e il frutteto danno spettacolo con le forme di allevamento degli alberi, cioè con i modi in cui le piante sono fatte crescere e vengono conformate. E' un tripudio di sostegni, potature fatte ad arte, legature. E' vera e propria arte associata alle piante. Gli alberi da frutto sono presentati in soluzioni in cui l'estetica ha un valore assoluto dimostrando che si possono coltivare frutti donando bellezza e stupore al giardino.





I due temi, quello dei frutti e quello delle forme di allevamento, ci accompagnerà anche in altre "stanze" del museum garden, sebbene con chiavi diverse. Intanto, passando dai settori più formali del giardino a quelli che ci restituiscono il senso paesaggistico che possono assumere i frutteti, si incontra lo shadow garden, il giardino ombreggiato. Siamo nel mondo delle hosta e di altre piante adatte a spazi poco luminosi, come la pachysandra, la waldsteinia, la pulmonaria, gli ellebori e gli aconiti, e, soprattutto, il giardino assume una fisionomia e un'estetica nuova, improvvisamente piacevole e paesaggistica.

E' quasi un diversivo che ci porta agli spazi improvvisamente aperti, curati e colorati in cui agli alberi da frutto di grandi dimensioni, tra cui dei saporitissimi meli, fanno paesaggio. Colpiscono la disposizione geometrica accurata e le protezioni poste alla base degli alberi. Qui sarà davvero difficile vedere le macchine per il taglio dell'erba urtare contro i fusti e danneggiarli irrimediabilmente, come spesso accade nei giardini nostrani. Ma gli alberi da frutto, si sa, hanno bisogno di impollinatori. Allora, quasi a volerci scaraventare in un quadro di Monet, tra i filari compaiono fiori che attraggono e alimentano gli insetti pronubi (impollinatori).
Ancora una volta, sono incanto e bellezza a far da padroni, a testimonianza della capacità dell'agricoltura di produrre paesaggio di pregio estetico quando il suo obiettivo economico non è strettamente connesso al solo raccolto dei prodotti. L'Unione Europea inserisce questa capacità nella multifunzionalità dell'agricoltura (1) e molte aziende agricole che svolgono attività agrituristica e didattica potrebbero trovare ispirazione in questi spazi.

La visita non è finita e il tema degli alberi da frutto torna con prepotenza alla ribalta nella "stanza" in cui entriamo per tornare verso l'ingresso. Qui le forme di allevamento più diverse e disparate sono messe a confronto e descritte tramite un'apposita cartellonistica e, soprattutto, alle forme di allevamento tradizionali sono messe a confronto quelle più moderne, con le piante ridotte in dimensione grazie ai portinnesti nanizzanti (2) e la conformazione della pianta vocata alla riduzione dei costi di produzione. Entrare nel dettaglio tecnico, ancora una volta, richiede competenza, ma il confronto visivo diretto spiega molte cose anche a chi è in visita per godersi lo spettacolo del museum garden. Addossate al fruit shed, una sorta di capanno in cui si vede come venivano conservati in passato i frutti raccolti, campeggiano nuovamente tre piante da frutto offrendoci un nuovo spettacolo. E' difficile non pensare che mani sapienti possano guidare le piante nell'assumere le forme più disparate.


Tornando verso l'ingresso, proprio quando sembra di esser giunti alla fine della visita, si viene irrimediabilmente catapultati verso il giardino all'italiana vivendo la strana sensazione di potersi trovare nella campagna toscana o laziale. La voglia di scendere le scale e di muoversi tra i ricami del giardino quasi impedisce di apprezzare l'orangerie, in cui vengono ricoverati gli agrumi. Impossibile, invece, non apprezzare l'originale vigneto sulle superfici erbose in pendio. I polmoni si riempiono d'aria mite e lo sguardo vaga all'orizzonte. La visita è finita, ma nascono i propositi. Chissà cosa ne scaturirà. Di sicuro, l'idea che questo museo sia un luogo, un orto, in cui tornare per imparare ancora.


***NOTE AL TESTO***


(1) “Oltre alla sua funzione primaria di produrre cibo e fibre, l’agricoltura può anche disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità, gestire in maniera sostenibile le risorse, contribuire alla sopravvivenza socio-economica delle aree rurali, garantire la sicurezza alimentare. Quando l’agricoltura aggiunge al suo ruolo primario una o più di queste funzioni può essere definita multifunzionale.” (Oecd 2001).

(2) La pratica dell'innesto consiste nell'unire parti di due piante a formare un unico individuo funzionale. Una delle due piante, detta nesto, fornisce la parte che si sviluppa in altezza dà origine ai frutti. L'altra, detta portinnesto, dà luogo ad una parte del fusto e alle radici. Alcuni portinnesti, detti nanizzanti, riducono l'accrescimento del nesto inducendo un nanismo che nell'agricoltura moderna è considerato vantaggioso per le semplificazioni e i risparmi dovuti alla ridotta dimensione della pianta.


***ALCUNE FOTOGRAFIE DI PARTICOLARI CHE MI HANNO COLPITO***

Comunicare 1 - bacheca esplicativa
Comunicare 2 - cartello esplicativo

Comunicare 3 - cartello esplicativo
Comunicare 4 - cartello esplicativo multilingue girevole
Comunicare 5 - cartello esplicativo multilingue girevole
Comunicare 6 - cartello descrittivo delle forme di allevamento
Bottiglia entro cui viene fatto crescere un frutto.
L'imbiancatura serve per evitare danni da calore al frutto.
Punto di innesto di melo allevato su portinnesto nanizzante
Alcune piante suscettibili di malattie fungine sono coperte
per evitare le bagnature di rugiada e pioggia.
Protezione alla base degli alberi da frutto
Terreno lavorato alla base degli alberi da frutto
Protezioni contro gli uccelli per le piante a bacca piccola

Oblò con bacheca esplicativa che consente di affacciarsi
sullo spazio che ospita le arnie (irraggiungibili dal pubblico)