Scienziato o tecnico di laboratorio? Il bambino al di là dello stereotipo dello sguardo adulto

Tornare bambino

Il mio più grande desiderio è quello di poter tornare ad essere bambino per qualche ora e poi tornare nuovamente alla vita adulta consapevole di quanto ho vissuto e provato in quel breve tempo. Sarebbe, nelle mie intenzioni, un modo per ridefinire la mia idea di bambino cercando di superare gli stereotipi che agiscono in me e, credo, in tutti. Sì, perché la cosa strana è che ognuno di noi è stato bambino o bambina, ma è ben difficile ricordare cosa significhi vivere quella condizione. Del resto, che gli adulti abbiano difficoltà a comprendere chi sia un bambino o una bambina è una condizione che si propone ai nostri occhi ogni giorno e, forse, capace di scaturire quella tendenza all'adultizzazione dell'infanzia che spesso si traduce in un abbigliamento adulto miniaturizzato col quale vestiamo bambini e bambine. A questi fenomeni di adultizzazione dell'aspetto, nella frenesia dei nostri tempi, si affianca l'azione adulta in sostituzione di quella infantile frutto del mancato riconoscimento delle abilità bambine. Così, anziché spingere i bambini nella zona di apprendimento prossimale teorizzata da Vygotskij, per esempio chiedendo loro di imparare ad allacciare le proprie scarpe, abbiamo trasformato questa sollecitazione in un compito per specialisti, mentre la sempre più ristretta galassia familiare si impegna nel sostituirsi ai bambini stessi ("ti lego le scarpe, altrimenti facciamo tardi") o nel trovare soluzioni di evitamento (le scarpe con allacciatura a strappo).

Il bambino scienziato - La bambina scienziata

Da un paio di anni mi viene chiesto di svolgere interventi formativi sul tema del bambino scienziato. Ricordo ancora quando la Cooperativa Koiné, con la quale ho la fortuna di collaborare, mi ha chiesto di intervenire su questo tema, poi diventato oggetto di vari interventi formativi: mi è parso subito ostico e scivoloso, ma mi ha appassionato. Ho fatto, poi, la scelta, probabilmente criticabile, di non andare a cercare ciò che è già stato detto, scritto o teorizzato su questo tema, ma di interrogarmi partendo dalla definizione di scienza. Così, per me il bambino e la bambina scienziati sono bambini in cui è rintracciabile un agire coerente con la definizione di scienza, niente di più e niente di meno. Oltre a questo, mi sono stampato un grafico che riassume la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner. Quest'ultimo mi serve ogni volta che mi faccio prendere un po' troppo da ciò che mi piace, cioè la scienza, e rischio di vedere nei bambini solo una modalità di agire, cioè quella scientifica. Il bambino e la bambina scienziati coesistono con altri bambini che abitano lo stesso corpo: il musicista, il matematico, lo sportivo e così via.

Cercare la definizione di scienza nell'agire bambino

Mi sono innamorato fin dalla prima lettura del saggio di Edoardo Boncinelli dal titolo I sette ingredienti della scienza ed è qui che possiamo rintracciare la definizione di scienza che, purtroppo, in pochi ci leggono prima, durante o dopo averci insegnato scienze. E' in quella definizione, che si trova trascritta al termine di questo articolo, che risulta facile rintracciare l'agire scientifico spontaneo nei bambini e nelle bambine fin dalla più tenera età.


I bambini che si accalcano in gruppo attorno a un qualcosa di nuova scoperta propongono l'idea di scienza come impresa collettiva. Come ripeto spesso nelle mie docenze, l'idea un po' romantica e cinematografica dello scienziato che lavora da solo in un laboratorio, talora clandestino, è del tutto fuorviante. Da sempre e in quest'epoca in particolare, lo scienziato o la scienziata non possono agire da soli, ma hanno necessità di farlo in rete, di sapere cosa qualcun altro ha scoperto, di avere il supporto di chi già sa o di chi sa in merito a ciò che serve per progredire in un certo campo del sapere scientifico. 

La scienza è, poi, un'impresa progressiva. Le conoscenze si stratificano e ognuna fa da trampolino alle altre. Ogni conoscenza acquisita non va perduta, ma sostiene quelle future. E così è per i bambini che, se oggi si meravigliano per una scoperta, domani la pongono a far da base per le successive, così come se un'azione a tre anni serve per scoprire il funzionamento del proprio corpo, a nove permette di scoprire qualcosa del mondo. Se a tre anni si sperimenta, proprio nel senso di esperire, di vivere, una circostanza che genera scoperta, a nove o a quindici si formalizza quella scoperta. Lo scivolare col proprio corpo o far scivolare oggetti lungo lo scivolo onnipresente nei parchi cittadini non è solo un gioco, ma una sperimentazione in corso che da adolescenti troverà la sua concettualizzazione nel moto di un grave lungo il piano inclinato, nei concetti di accelerazione, velocità e attrito.

La scienza si interessa agli aspetti riproducibili dei fenomeni naturali. Quale miglior specialista esiste nella ripetizione, nella riproduzione, nella ricerca dei fatti ripetibili e riproducibili del bambino e della bambina. Ad un adulto impreparato sembra quasi impossibile la tenacia con cui tornano a ripetere un gesto, un'azione che genera un risultato tangibile: un suono, un movimento, qualsiasi cosa. I salti ripetuti nella pozzanghera come il tornare a battere un bastoncino su diverse superfici generando suoni diversi, ma ciascuno più volte. E quanta attrazione spontanea per i fenomeni naturali: il volo di un insetto, un frutto marcescente, il brillare di una pietra.

Gli scienziati comunicano. Modernamente lo fanno pubblicando i propri lavori, partecipando a convegni e conferenze. Ed ecco che i bambini quasi mai riescono a tacere delle proprie scoperte e, invece, provano la voglia di comunicarle. Lo fanno con altri bambini, con gli adulti che operano professionalmente con loro, così come con i familiari e gli amici. E questo comunicare affina i linguaggi, va in cerca di tanto di modalità espressive quanto di vocaboli, esattamente come accade ad uno scienziato che affina un gergo di settore, talora conia nuove espressioni o parole.

Gli scienziati e chi dal punto di vista tecnologico utilizza le conoscenze scientifiche fanno previsioni fondate e progettano e mettono in atto macchine funzionanti, siano esse concettuali o materiali. E questo fanno i bambini quando si muovono in un ambiente nuovo, quando cercano di unire due oggetti con un terzo, quando provano a far stare in equilibrio un oggetto o ne accatastano più d'uno. Prevedono e verificano, poi affinano la capacità di assemblare sistemi più complessi o pensieri via via più articolati, esattamente come un pool di scienziati elabora una teoria che fa nascere la fisica quantistica. O come un team ingegneristico che progetta e costruisce un edificio o un ponte.

Insomma, tutto ciò che contribuisce a definire la scienza i bambini e le bambine lo fanno spontaneamente. Del resto, come dice Neil Degrasse Tyson, astrofisico e divulgatore scientifico americano, uno scienziato è un bambino che non è mai cresciuto.

Le mie stoviglie non fanno di me un cuoco

Ho una cucina mediamente attrezzata. Ci sono forno e fornello, frigorifero, bollitore, tostapane, stoviglie varie. Ho pentole di varia misura. Idem per le padelle. Ho delle teglie. Ho taglieri, coltelli e altre cose che uso con una certa perizia. Eppure, nessuna delle persone che mi conoscono pensa di me che sia un cuoco, anzi. Negli ultimi anni, per vicissitudini personali, mi sono trovato sempre più spesso a cucinare e, come possono testimoniare i miei figli, sono molto migliorato. Ho imparato a fare il ragù di carne, per esempio. Nonostante questi miei potenti progressi, nessuno pensa di me che io sia diventato un cuoco. Personalmente, invece, ho affinato alcune competenze di fisica e chimica. Ho imparato ad usare l'acido acetico dell'aceto per togliere le incrostazioni di calcare dal bollitore. Ho affinato una mia tecnica per massimizzare l'efficacia degli sgrassatori lavorando sui tempi di azione. Ho scoperto che gli antimuffa a base di cloro, grazie al loro potere sbiancante, possono servire per far tornare come nuovi i mestoli di legno che talora virano verso colori scuri. Ho scoperto anche che, se questi strumenti non si asciugano velocemente, le muffe sono rapide nel colonizzarli, esattamente come accade ai formaggi se rimangono troppo a lungo in frigorifero, magari chiusi in un contenitore o avvolti in una pellicola. La mia scienza in cucina ha fatto passi da gigante, ma continuo a non essere definito un cuoco. Qualche persona, invece, mi dice che a sentirmi parlare di questi aspetti sembro uno scienziato. Vorrei obiettare che lo sono o, meglio, che il mio agire quotidiano è scientifico. E lo faccio spesso.

Spero di esser stato convincente sul fatto che non è la dotazione tecnologica della mia cucina a fare di me un cuoco. Anzi, provo a dire che un cuoco riesce a cucinare e, soprattutto, a farlo meglio di me anche in una cucina male attrezzata o con ingredienti limitati in quantità e qualità. Del resto, di molti cuochi e cuoche i familiari dicono che fin da piccoli erano interessati al cibo, a prepararlo, cucinarlo, anche quando avevano ben poco a disposizione e pure qualche limite posto dagli adulti. Il loro essere cuochi non è frutto di dotazioni tecnologiche, ma di un agire per loro quasi inevitabile.

Prescindere dallo stereotipo adulto: il bambino non è un tecnico di laboratorio

Se il ragionamento fin qui condotto funziona, posso finalmente arrivare al mio affondo: gran parte delle volte che introduco l'argomento del bambino e della bambina scienziati, i miei interlocutori e interlocutrici iniziano a parlare di esperimenti, di fagioli cresciuti nell'ovatta, di lenti, macchine fotografiche e microscopi. Se li lascio proseguire, e spesso lo faccio prima di entrare nel merito dell'argomento, quello che si materializza nei racconti e nelle proposte non è un bambino scienziato, ma un tecnico di laboratorio.

Immagine liberamente tratta da https://www.jobsanita.it/
Provo a descriverlo in ambito educativo e scolastico. Ha spazi in cui sono disponibili attrezzature dei tipi più diversi. Quando inizia a leggere ha a disposizione dei manuali e delle istruzioni. Ha almeno un adulto di riferimento in qualche misura specializzato che lo guida a condurre esperimenti suggeriti, guidati o semplicemente proposti come unica possibilità del momento. Ottiene risultati brillanti sul piano del prodotto: il seme del fagiolo germina, l'interno del bulbo si rivela al microscopio, il tappo di sughero galleggia. Esattamente come accade ai miei colleghi agronomi che fanno analisi chimico-fisiche del suolo nel loro laboratorio: seguono una metodologia, hanno strumenti muniti di manuali e istruzioni operative, emettono un report di analisi standard. E lo fanno con camice bianco e occhiale protettivo. Un compito e un ruolo importante per il quale è necessaria una profonda conoscenza tecnico - scientifica, ma niente che aiuti a definirli scienziati. Esattamente come il cuoco e la cuoca: il loro è un laboratorio in cui le reazioni chimiche e i fenomeni fisici sono il tramite della loro arte, ma nessuno li definisce scienziati.

E allora? Allora è giunto il momento di togliersi di dosso uno stereotipo che vive nella testa degli adulti: lo scienziato ha bisogno di attrezzature e strumenti, soprattutto nella scienza moderna, ma a renderlo scienziato sono il suo agire e il suo pensiero, non quegli strumenti. Certamente la fisica quantistica e la biologia evoluzionistica non sarebbero tali senza le attuali dotazioni tecnologiche, ma tanto le intuizioni della prima quanto quelle della seconda sono frutto di una modalità di pensiero, di un agire in senso lato, di uno sguardo e divergente originale sul mondo. Il famoso paradosso del gatto di Schrödinger  non è frutto della disponibilità di un gatto e di una scatola, ma di un pensiero che fa di Schrödinger uno dei più grandi scienziati del novecento, nonché un Premio Nobel. Alla stessa stregua, non è una lente a evidenziare in una bambina l'agire scientifico, ma la sua curiosità di fronte al brulicare di animaletti quando si solleva un oggetto rimasto a lungo appoggiato sul terreno, la sua innata tendenza a fare qualcosa, a chiamare gli altri, a raccontare cosa ha scoperto, a disturbare intenzionalmente quegli animali per vedere cosa fanno.

Proprio qualche giorno fa un diciottenne di cui sono "il prof di scienze" mi ha detto: "io da bambino davo fuoco alle formiche... credo che lo facciano tutti da bambini". Ecco, al di là del tratto crudele che emerge allo sguardo di molti adulti, Kevin (nome di fantasia) ha condotto un esperimento scientifico che si contraddistingue in primis per il pensiero e l'agire, poi per gli strumenti necessari. Alcol e accendino aiutano molto, ma carta e fiammifero funzionano ugualmente. Un po' di paglia o di erba secca anche. "Le formiche scappano, ma non sono abbastanza veloci, e il loro corpo si muove in modo strano mentre bruciano": sì, i bambini sanno fare cose terribili al pari degli scienziati ed è per questo che, loro come la comunità scientifica, hanno bisogno di uno sfondo etico. A questo, anche a questo, servono a fianco adulti preparati.

Quindi? Una breve semplice conclusione.

Quindi, nel tentativo di riconoscere e sostenere l'agire scientifico dei bambini, noi adulti dobbiamo prima di tutto liberarci dei nostri stereotipi, tornare alla definizione di scienza e ripartire da lì. Gli ambienti e le loro dotazioni tecnologiche contano, ma ancor di più vale il nostro pensiero pedagogico, soprattutto quando ci rapportiamo con la prima infanzia. Dobbiamo ripartire dai bambini e dalle bambine per evitare che il loro agire scientifico non sia reale, ma un mimo del nostro stereotipo. Avete mai visto un bambino che osserva qualcosa con una lente ormai opacizzata? Io sì. In quel momento non osserva altro che l'adulto in cerca di approvazione, perché dalla lente non si vede nulla. E' quando ripone la lente difettosa e si avvicina al buchetto da cui escono le formiche e prova a bloccarle con un sasso che è un giovane scienziato al lavoro. Scienziato che coesiste con molte altre figure e intelligenze.

James Webb Telescope
Ciò non significa che non abbia senso mettere a disposizione di bambine e bambini strumenti utili all'indagine scientifica, ma che questi non devono orientare e dominare la loro ricerca, bensì sostenerla. Quegli strumenti non dobbiamo usarli perché li abbiamo comprati, ma comprarli o costruirli perché in un certo momento possono servire. In questo dobbiamo anche ricordare che i telescopi spaziali permettono di osservare zone del cosmo altrimenti inosservabili, ma che ancora oggi molte scoperte sono fatte con telescopi a terra, talora da semplici astronomi amatoriali muniti di strumenti tecnologicamente ben meno evoluti dei primi. Così, un rametto può far scoprire più cose sulle formiche di un potente microscopio disponibile nel laboratorio di scienze. Di pari passo, quel rametto lascia che possano manifestarsi il bambino o la bambina scienziati senza imbrigliarli nel ruolo di tecnico di laboratorio.

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Annotazione a margine: cosa è la scienza?

Un’impresa collettiva e progressiva volta a cogliere gli aspetti riproducibili di un numero sempre maggiore di fenomeni naturali e a comunicarli attraverso lo spazio e il tempo in forma sinottica e internamente non contraddittoria, in modo da porre chiunque in condizione di fare previsioni fondate e di progettare e mettere in atto “macchine” funzionanti, siano esse di natura materiale o mentale.

Edoardo Boncinelli in “I sette ingredienti della scienza”







Mare fuori, dentro a un'aula

Non c'è cosa più difficile da definire di ciò che faccio professionalmente e non c'è cosa più semplice da qualificare di ciò che sono professionalmente: un privilegiato.

No, non c'è alcun posto sicuro, ma l'eterno precariato di chi costruisce oggi l'incarico di domani e quasi non si capacita per quanto interesse ci sia per ciò che fa. Non c'è nemmeno la ricchezza, tantomeno la gloria. C'è il contatto con un'umanità quanto mai vasta e varia.

A più riprese e con maggiore intensità nel post - covid, sono stato catapultato a fare scuola a chi nella scuola non rimane. Sì, io entro nelle aule che ospitano, spesso loro malgrado, "i ragazzi drop out", quelli che non riescono a seguire un percorso scolastico nell'età dell'obbligo formativo e che, quasi come se questo avesse senso solo per loro, vengono avviati ad un percorso professionalizzante. Saranno addetti di cucina, falegnami, parrucchieri, muratori, ma il sistema non li vuole solo capaci di fare un lavoro, bensì muniti di una cultura generale minima. Ecco, io in quei contesti sono "il prof di scienze". Ho un programma che dovrei seguire, cosa che cerco di fare, e di fronte a me ragazzi, talora ragazze, che tutto vogliono tranne sapere ciò che dovrei insegnargli. In fondo, è la mia fortuna: è grazie a questo che riesco a fare scuola a loro insaputa coltivando, tirando calci a un pallone, costruendo oggetti, guardando un film, andando al supermercato o all'orto botanico e, perché no, sedendomi con loro al bar. In definitiva, il contenuto scientifico è ovunque e la scienza è un metodo per guardare e studiare il mondo. Non serve amarlo, ma capire che può aiutarci nel quotidiano Non sono uno scienziato e non c'è motivo per cui dovrebbero diventarlo quei ragazzi.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un post su Facebook in cui qualcuno, non ricordo chi, diceva che avrebbe voluto essere l'insegnante di Samantha Cristoforetti, l'astronauta. Ecco, mentre lo leggevo ho pensato che i miei incarichi di "prof di scienze per ragazzi drop out" sono un grande privilegio. Non dubito del fatto che Astrosamantha abbia incontrato insegnanti fantastici e bravissimi, ma dubito fortemente che senza di loro avrebbe avuto una vita diversa. Lei non è mai stata una ragazza da salvare, casomai è la ragazza che ci salverà. Lo fa semplicemente ispirandoci. 

La vera sfida è aiutare a salvarsi gli adolescenti che incontro nelle aule dei già citati corsi "per drop out". Sono ben convinto che scienze non li aiuterà, ma nutro la speranza che in quelle ore possano trovare un appiglio, l'idea che il sapere non sia qualcosa che ti misura di fronte al mondo, ma che ti colloca in quel mondo. Un mondo non facile che li ha già respinti prendendo in carico chi ce la fa e confinando loro in gruppi nei quali si concentrano una o due decine di quegli studenti che, spesso, averne due in classe è considerato un disastro. Eccoli lì: gli sfigati buttati fuori dal sistema scolastico che devono trovare un modo per primeggiare tra apparenti meno che mediocri. Dico apparenti perché, quelle volte che riesco ad agganciarne uno, mi rendo conto delle loro enormi lacune, ma anche di potenzialità che sono rimaste inespresse. E' come se a loro mancasse la formula matematica (vi assicuro che spesso non hanno alcuna base) per rendere concreto un fenomeno fisico che sanno tranquillamente maneggiare. Hanno visione di gioco, ma sono senza le scarpe giuste per il campo in cui si svolge la gara. Spesso hanno, però, esperienze di vita, quasi sempre tutt'altro che facili, che ne fanno dei Matusalemme al confronto sia dei coetanei sia dei docenti.

Le ore di lezione con loro non sono facili, tutt'altro. Possono, anzi, diventare un vero inferno: lunghe mezz'ore in cui ti chiedi chi te lo ha fatto fare di accettare quell'incarico. Così, almeno, è stato nelle mie prime esperienze. Be', forse dovrei definirle le mie prima "inesperienze". Già, perché non c'è alcun passato di formatore o insegnante che ti venga facilmente incontro quando hai di fronte 15 ragazzi, di cui 10 oppositivi, 5 che sembrano persi al mondo e qualcuno di loro ben indirizzato verso quelle disavventure che ti portano davanti a un giudice. Ah, non dimentichiamo che alcuni non parlano l'italiano in modo adeguato all'età e alle richieste del corso e che, non poche volte, vengono da contesti culturali lontani da quello del "prof" e di molti compagni di corso. Il mix è potenzialmente esplosivo e, in effetti, capita di veder brillare i fuochi d'artificio.

Ho sempre posto l'attenzione sul lato umano della vicenda, ma da qualche tempo è arrivata una serie TV a farmi riflettere, a darmi uno sguardo diverso. Si tratta di "Mare fuori", una serie che racconta le vicende di ragazzi e ragazze che finiscono nell'IPM (Istituto Penale per Minori, il carcere minorile) di Napoli. Potrebbe essere uno qualsiasi, ma i destini di chi vive nella città della sirena Partenope si svolgono attorno a temi e vicende che aggiungono un ineguagliabile fascino alla narrazione. Al netto del costrutto televisivo, degli stratagemmi comunicativi, delle forzature rispetto alla realtà, ciò che mi colpisce è il racconto delle vicende che hanno portato in carcere i vari protagonisti. Mi piace e mi affascina perché, in definitiva, le storie, la stessa fisionomia e la personalità dei vari Carmine, Chiattillo, Edoardo, Viola, Pino, Naditza, Ciro non sono diverse da quelli dei "miei" studenti "drop out". Sono solo ragazzi e ragazze normali che la vita pone in situazioni che, spesso, non ti lasciano scelta o, almeno, nascondono la migliore laddove nasce il conflitto con l'educazione che ricevi, la famiglia, gli amici e tutto ciò che è il tuo mondo. 

"So’ crisciut’ mmiez’ ‘a via, ‘o sacc’ chell’ ch’ m’aspetta. Nu guaglion’ do sistema, mo’ vuo’ sistema’ ‘utt’ cos’. Mmiezz’ ‘a via e’ megl’ ‘a tene’ fierr’ o accattar’ ‘e ros’. Patm’ sta carcerat’, so ll’omm’ ‘e cas’" dice la canzone della sigla

"Sono cresciuto in mezzo alla strada, e so bene quello che mi aspetta: un ragazzo nato dal sistema, che vuole sistemare tutte le cose; che vive in mezzo alla strada e ha la pistola in mano. Mio padre è in galera ed io sono l’uomo di casa", tradotto per chi, come me, si incanta ad ascoltare il napoletano senza capirlo.

Vivere in mezzo alla strada con la pistola in mano è ciò che non capita ai ragazzi con cui lavoro. Già, perché ho omesso di dire che faccio "il prof" in Toscana, prevalentemente tra le province di Lucca e Pisa. Non mancano né le strade né le pistole o i coltelli e qualcuno dei ragazzi che incontro potrebbe averne fatto vario uso. Non mancano nemmeno la droga, la bassezza dell'umanità, la tentazione e la necessità di delinquere, il disagio, l'emarginazione o il pregiudizio, ma parliamo di zone dove, fortunatamente, il vivere civile è quieto e ispirato alla legalità. Tuttavia, c'è un rischio che incombe dal quale i corsi di cui sto parlando tengono distanti chi li segue. Puoi essere svogliato, irriverente, mancante di rispetto, minaccioso o pericoloso, ma in quelle ore te ne stai lontano da ciò che potrebbe risucchiarti in un vortice che in due minuti ti rovina la vita per sempre, incontri adulti pieni di difetti, ma che ti propongono un modello di vita in cui la prosocialità è una condizione presente. Può essere sottotraccia, mal interpretata o gestita, ma c'è. Alla fine, "quello stronzo del Prof" dimostra che c'è una via alternativa ai modelli che alimentano il suddetto vortice. C'è, in più, qualcuno che dissemina il tuo tempo di appigli culturali, di buoni motivi per non aderire ai modelli negativi o per farlo più per gioco che per convinzione, spesso munito delle competenze che ti fanno deviare prima che sia troppo tardi. 

Ecco, io guardo quei ragazzi e quelle ragazze e mi chiedo cosa ne sarebbe in altri contesti, in luoghi in cui il crimine è un modello positivo o, almeno, un'apparente opportunità per trovare un tuo posto nel mondo, nella società. O, ancora, dove del crimine potresti essere vittima da un momento all'altro. Esserne vittima per diventarne il protagonista, come accade a molti dei ragazzi di Mare Fuori che, a ben vedere, non avevano la stoffa del criminale, ma si sono trovati a indossarne gli abiti. Guardo i ragazzi con cui lavoro e capisco che sanno o possono capire da soli come salvarsi, ma hanno bisogno di incontri fortunati per farlo e in questo i corsi in cui lavoro sono un tempo giusto, un tempo della vita in cui possono aggrapparsi agli appigli offerti dagli adulti coinvolti dal sistema della formazione. 

Spesso guardo quei ragazzi e osservo come loro guardano noi adulti e questo mi dà una chiave di lettura su di me, eternamente in cerca di un equilibrio tra il rispetto della forma imposta dal sistema regionale della formazione, un mondo in cui l'identità digitale vale di più di una pacca sulla spalla data al momento giusto o di una parola di conforto, e quel poter essere generatore di appigli per chi potrebbe scivolare e cadere. E' una responsabilità enorme e, al tempo stesso, il privilegio di cui parlavo in apertura. Responsabilità e privilegio che mi convincono a affrontare argomenti trattabili con metafore che parlano della vita, ad usare la Legge di Liebig per spiegare il ruolo del singolo nei gruppi e nella società, a trattare con sufficienza Darwin e Linneo per spiegare che le differenze tra umani sono risorsa e che le razze non esistono, che il sapere può arrivare da un videogioco e che un video pornografico banalizza la più grande delle invenzione del mondo biologico: il sesso.

Ecco, chiusi in un'aula, camminando in un parco, su di una terrazza o tra i corridoi di un supermercato provo a far capire ai ragazzi che incontro che "ce sta o' mar' for'", anche quando sembra di stare dietro le sbarre. Potrebbe non servire a niente, ma intanto salvo me stesso per poterci essere per gli altri. E tanto mi basta.




Un'idea di natura

Questo post è tratto da una più ampia pubblicazione denominata Orti e giardini nelle scuole e nei servizi educativi frutto di un incarico professionale solidale col quale l’autore Emilio Bertoncini ha potuto affrontare le difficoltà economiche scaturite dalle restrizioni all’esercizio della propria attività dovute all’emergenza Covid-19. Per saperne di più: www.ortinellescuole.it 

Quand’è che siamo immersi nella natura? Sì, in quale contesto abbiamo la sensazione di “stare nella natura”? In altri termini, cosa è la natura? Come accade per molti altri temi, tendiamo a dare una risposta senza aver chiara la definizione o, addirittura, senza che sia possibile darne una univoca e stabile nel tempo. Probabilmente, la stessa domanda posta ai miei figli e ai miei nonni avrebbe risposte molto diverse perché l’idea di natura e la stessa considerazione che se ne può avere sarebbero molto diverse nei due casi.

Molto spesso, però, la domanda ci evoca spazi verdi, la campagna, le foreste, giusto per rimanere nelle situazioni con cui più frequentemente ci confrontiamo. Credo che sia piuttosto remota una risposta come “mi sento in natura nel bel mezzo di un’area industriale abbandonata”. Tranne chi ha la fortuna di frequentare il mare aperto, i ghiacci polari o il deserto, spesso identifichiamo la natura con il colore verde e su questo tornerò. Ora però sento il bisogno di esternare una mia grande difficoltà: la mia laurea in scienze agrarie e il mio essere guida ambientale determinano uno strano sguardo su ciò che la maggior parte delle persone identificano come spazi naturali. Per me le campagne, le aree forestali e pure quelle selvagge di gran parte dei continenti non hanno molto di naturale. Riconosco, certo, che alla base di tutto ci sono alcuni assetti riconducibili a fatti naturali, cioè estranei alle intenzioni umane, come la natura geologica di un territorio, ma mi è generalmente impossibile non notare l’azione dell’uomo. Provo a spiegarmi meglio con alcuni esempi.

Quando mi trovo nelle splendide campagne del Chianti, una delle aree più famose della Toscana, regione in cui abito, vedo un paesaggio deciso dagli umani. Il vigneto e l’oliveto sono impianti produttivi introdotti per mano dell’uomo. Il bosco è lontano parente di una foresta originaria, ma è rimasto nelle aree in cui coltivare sarebbe stato più difficile e le sue caratteristiche dipendono grandemente dagli interventi umani e dalle tecniche di coltivazione attuali o passate. Lo stesso eventuale abbandono della sua gestione è frutto di una scelta dovuta ai cambiamenti dell’economia globale. Del resto, i vigneti esistono perché gran parte degli umani dispersi sul pianeta che bevono alcolici apprezzano proprio i vini di queste zone. Senza i bevitori del vino, i vigneti del chianti sparirebbero. Come dice Wendell Berry (Berry, 2009-2015), mangiare è un atto agricolo (io credo che sia addirittura un atto politico) e da esso dipende grandemente il paesaggio di molte regioni del mondo.

Se provo a spostarmi in Garfagnana, porzione montana della provincia di Lucca, mentre cammino lungo “I sentieri del Moro”, che io stesso ho contribuito a far nascere, pur trovandomi immerso nel verde e nella foresta, non riesco a non percepire l’impatto dell’uomo. I castagni tra cui mi aggiro sono arrivati lì più di mille anni fa per scelta umana e lì sono stati coltivati (e in parte lo sono ancora) per rispondere ai fabbisogni alimentari della popolazione. I boschi in cui stanno evolvendo dopo l’abbandono sono frutto di una scelta ben precisa dettata da qualche malattia vera e propria, come il mal dell’inchiostro e il cancro del castagno, e di uno stravolgimento dell’economia globale, quello in cui la mia famiglia è passata da un’agricoltura di sussistenza all’emigrazione in altri territori per abbandonare del tutto il lavoro agricolo. Questo quando non sono arrivate pinete e abetine, spesso fuori posto, frutto di rimboschimenti. In zona ci sono alcune cerrete che sembrano inspiegabili. Sì, boschi di querce, in particolare cerro, rimasti laddove si sarebbero potuti piantare castagni per produrre la farina di neccio (nome locale con cui è indicata la farina di castagne - oggi è una DOP – denominazione di origine protetta). L’inspiegabilità è solo apparente: si trattava di boschi destinati a produrre le ghiande per l’alimentazione del maiale, una delle fonti di proteine e grassi animali più utilizzate fino a qualche decennio fa. Quei boschi di querce, la cosa più vicina al cerreto-carpineto diffusamente indicato per l’area nella mappe della vegetazione forestale potenziale, non sono lì in quanto semplice e normale componente naturale, ma per una precisa esigenza e scelta dell’uomo. Lo stesso accade quando vado in gita in Liguria e riconosco i paesaggi terrazzati delle Cinque Terre nati per coltivare la vite e produrre il vino, quando cammino per le sterminate distese di cereali della Puglia o della Basilicata, quando mi muovo sulle dolci colline umbre e marchigiane, quando osservo la laguna vagando per le isole di Venezia o quando osservo le terribili immagini delle foreste venete e trentine distrutte dalla tempesta Vaia: vedo di continuo l’azione dell’uomo e non riesco a sentirmi “in natura”, per quanto stia osservando un’azione competente e, talora, sapiente dei miei consimili. Arrivo, addirittura, al paradosso delle aree protette: laddove cerchiamo di rispettare e tutelare la natura, essa è più libera di essere se stessa per nostra scelta! Qualcuno mi dice, però, che in certe aree montane e remote l’azione dell’uomo non c’è o è modestissima, quindi lì c’è la natura. So di essere un po’ pignolo, ma trovare un territorio senza l’azione intenzionale dell’uomo è assai difficile e, quando sembra essere assente, è solo perché dei limiti oggettivi non ci hanno permesso di andare oltre. Se su certi pendii alpini ci sono le foreste, nelle quali si riconoscono forme d’uso e scelte selvicolturali, non è perché la natura è rimasta libera dall’uomo, ma perché la massima trasformazione tecnicamente ed economicamente possibile è stata, fino ad ora, quella. Le metropoli non nascono in montagna solo perché è più semplice ed economico costruirle altrove!

Prima di andare avanti nel ragionamento, intendo soffermarmi su un fatto che riguarda l’accessibilità della natura utilizzabile in chiave educativa. L’idea di natura comunemente intesa, per chi si occupa di educazione ha un terribile difetto: è distante, spesso irraggiungibile o raggiungibile solo in circostanze speciali, come le uscite didattiche che, in molti casi, si sono fatte sempre più rare e costose. Stando così le cose, è assai difficile che possa entrare a far parte del setting educativo. Abbiamo, quindi bisogno, di una natura più vicina, una natura di prossimità con cui poterci confrontare nel quotidiano in modo concreto e reale (Ciabotti, in Modello Agrinido di Qualità). L’idea comune di natura, però, sembra indicare la necessità per le scuole e i servizi educativi di spostarsi lontano dalla loro collocazione più comoda, cioè nei pressi di borghi e città, spesso semplicemente nel quartiere.

È possibile cambiare il nostro sguardo sulla natura per avvicinarla a noi? Provo a farlo con un esempio. Hai mai visto una pianta che cresce dove noi umani non la vorremmo? Un’erbaccia che cresce sul marciapiedi o in mezzo al cortile, un fico nato sulla facciata o sul tetto di un edificio, quell’enorme ailanto che si affaccia dai ruderi del capannone? Se fai mente locale ti verranno in mente piccole “foreste” erbacee sullo svincolo autostradale, capperi che crescono sulla facciata delle chiese e vecchi opifici invasi da tentativi di bosco. Forse, ricorderai anche qualche servizio giornalistico che durante il lockdown dovuto all’emergenza Covid-19 ci raccontava dell’erba che tornava a crescere nelle piazze delle città, come nella bellissima Piazza del Campo di Siena. Cos’è quella, se non la natura, almeno nella sua accezione biologica, che cerca riappropriarsi dei propri spazi? È per questo che spesso dico che una piantina che cresce dove non l’abbiamo mai pensata, dove a noi sembra impossibile che possa sopravvivere, dove non vorremmo che crescesse, è la massima espressione della natura. Bastano un seme o una spora e il manifestarsi delle condizioni idonee a germinare, eventualmente anche senza la prospettiva di accrescimento futuro, e la vita prova a partire, a portare la natura anche dove noi l’abbiamo spazzata via. La vita, la natura, fanno con quel che c’è, colgono le possibilità che si presentano. In tutto questo non c’è una splendida metafora per chi fa educazione? Come possiamo educare? Nei modi che ci sono possibili, non in quelli che consideriamo ottimali, ma non abbiamo a disposizione. Si educa cogliendo le possibilità che si presentano. Aggiungerei anche lavorando affinché le possibilità aumentino sempre di più e non escludo che la natura già lavori in questa direzione.

A questo punto del ragionamento ho bisogno dell’aiuto di due grandi pittori: Vincent Van Gogh e Paul Gauguin. È in un loro dialogo nel film “Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità” che una sera di qualche anno fa, in un cinema milanese, è arrivata la soluzione al mio dilemma, alla discrasia tra il mio modo di vedere la natura e quello che alberga nel senso comune e, spesso, nel mondo educativo. Ecco le parole che Paul rivolge all’amico Vincent:

Senza i nostri occhi non esiste natura.

E nessuno vede il mondo allo stesso modo.

Se le cose stanno così, la natura non esiste, è solo una nostra definizione e “la natura” nasce nel momento in cui il nostro sguardo si muove con quella definizione. Il punto è che ognuno di noi ha una propria idea, una propria definizione di natura e, allora, essa può essere tante cose diverse. Dal momento che nel mondo educativo e didattico lavoriamo con bambini e ragazzi, c’è da chiedersi cosa sia secondo loro, come si possano mettere insieme definizioni diverse e cosa vedano i più piccoli, ancora non contaminati dalla distinzione tra “naturale” e “artificiale” che viene introdotta durante la scuola primaria. 

A me piace andare oltre e immaginare cosa potrebbe accadere mettendo la definizione di artificiale nella testa di un’altra specie. Provo con il castoro e mi immedesimo in cucciolo orgoglioso del lavoro di mamma e papà che costruiscono vere e proprie dighe. Forte della definizione di “artificiale” centrata sulla mia nuova specie di appartenenza, quelle dighe sono artificiali. So però che ci sono altri animali capaci di costruire dighe sul pianeta: gli umani. Li ammiro molto, anche perché le loro dighe sono altissime. E del tutto evidente, però, che le loro dighe, essendo quelle costruite da animali, sono naturali!

Forse devo tornare con i piedi per terra, anzi nelle zampe degli umani, e provare a procedere con più attenzione. È per questo motivo che voglio trascrivere alcuni brani del libro “Una seconda natura” di Michael Pollan.

Ecco il primo.

(…) la rosa non solo indossa i colori del nostro spirito, ma li contiene. Le rose sono state così a lungo coltivate, incrociate e reincrociate affinché rispettassero i nostri ideali, che ormai è impossibile separare la loro natura dalla nostra cultura.

Secondo il ragionamento di Pollan, la rosa, una pianta che ci dona i fiori, per noi massima espressione di ciò che è natura, è inscindibile dalla nostra cultura e, probabilmente, non abbiamo esitazione nel dire che ciò che è cultura è artificiale.

Il secondo.

L’abitudine a contrapporre grossolanamente natura e cultura non ha fatto che crearci problemi, problemi dei quali non ci libereremo finché non avremo sviluppato una percezione più complessa ed elastica della nostra collocazione nella natura.

Devo confessare che il ragionamento di Pollan si fa intrigante: c’è bisogno di rivedere la nostra collocazione nella natura, non al di fuori o in contrapposizione con la natura!

Eccoci al terzo brano.

E, infine, stiamo parlando di natura o di cultura quando raccontiamo di una rosa (natura) che è stata selezionata (cultura) in modo che i suoi fiori (natura) inducano gli uomini ad immaginare (cultura) il sesso delle donne (natura)? Forse è di questo genere di confusione che avremmo più bisogno.

La confusione tra ciò che è cultura, quindi artificio, e ciò che è natura, semplificata e amplificata nel rapporto tra umani e rosa, tra la specie più egocentrica che io conosca e la pianta che più fortemente si è fatta plasmare per raggiungere, come molti altri vegetali, lo scopo di portare il proprio DNA ovunque sul pianeta (Mancuso, 2017), sembra segnalarci che, almeno in qualche caso, è proprio impossibile distinguere le due cose, se non sulla base di definizioni di comodo valide di volta in volta.

Ancora un brano, il quarto. Breve.

Il giardino indica che forse esiste un luogo dove noi e la natura possiamo incontrarci a metà strada.

E il quinto, ancora riferito al giardino.

(…) un luogo con una lunga esperienza su interrogativi che hanno a che fare con l’uomo nella natura.

Pollan ci sta forse suggerendo che abbiamo bisogno di contesti, e il giardino potrebbe essere uno di quelli, per ricollocarci nella natura? È su quello che dobbiamo lavorare? È lì che dobbiamo interrogarci per risolvere la questione di cosa è natura e cosa non è natura?

Forse, Pollan dà un ultimo suggerimento proprio sul finire del libro.

Forse anche la natura incontaminata ha bisogno di una cornice, del contrasto con l’artificio umano.

Se le cose stanno così, la domanda chiave con cui ho aperto questo paragrafo potrebbe essere capace di dirci che, ritrovando il nostro ruolo nella natura, anche l’artificio che siamo in grado di produrre ci consente di capire meglio la natura in cui viviamo.

È questa una risposta? No, non lo è. Ne è mia intenzione dare una risposta. Quello che, al termine di questa riflessione, vorrei potesse accadere in ognuno di noi, soprattutto in coloro che si occupano di educazione, è il tentativo di dare una propria risposta, possibilmente divergendo rispetto all’idea di natura che ci hanno consegnato la scuola e la nostra società, per le quali natura è tutto ciò che non è artificiale, come se la distinzione fosse semplice. Un’idea di natura, quindi, per me è quella che scaturirà da ogni ulteriore riflessione capace di portarci oltre nel ragionamento.

Prima di chiudere il paragrafo, però, voglio aggiungere un pensiero e, per farlo, torno a mio figlio Diego, il cavernicolo digitale. Che rapporto c’è tra la sua natura e la natura? Che idea ha o può farsi della natura? E come posso influire su quella sua idea, sul rapporto tra l’ecosistema digitale in cui si trova a proprio agio e l’ecosistema fisico in cui vive? Ovviamente, non ho le risposte a tutte queste domande, ma c’è un aspetto che, in qualche modo, mi consente di spostare il ragionamento da me e mio figlio a chi si occupa di educazione, soprattutto di educazione all’aperto, e i bambini: perché far vivere ai cuccioli degli umani del XXI secolo esperienze in natura e di natura, magari quella addomesticata e di prossimità del giardino della scuola, del servizio educativo o del parco cittadino? E quali rischi si corrono quando ci si sente adatti, quando si viene da esperienze di vita in cui stare all’aperto, a contatto con la natura, la natura come la intendiamo noi, è la normalità? Tra me e Diego questa cosa è diventata caratterizzante la nostra relazione educativa e non posso negare che ho dovuto lottare un po’ con me stesso per evitare di pensare che lo stare all’aperto fosse l’esperienza migliore per lui. Mi è sembrato, anzi, impossibile che non fosse di suo gradimento, che non lo entusiasmasse. Poi ho capito che non stavo rispettando il suo diritto di essere se stesso, diverso da me. È in quel momento che ho potuto cambiare prospettiva: proporgli esperienze in natura e di natura è dargli l’opportunità di conoscerle, di sperimentare altro rispetto a ciò in cui sa immergersi da solo. È un’occasione, forse unica, di consentirgli di scegliere, di non vedere un’unica possibilità. E non sarà scegliere tra ecosistema fisico e virtuale, tra tecnologia e natura (come se fossero in antitesi), ma quanto queste e altre possibilità conteranno nella sua vita. Se quanto accade tra me e lui può accadere tra chi si occupa di educazione all’aperto e i bambini, forse dobbiamo davvero interrogarci sul motivo intimo e profondo per cui lo facciamo, su come la nostra natura e la nostra idea di natura possano mettersi al servizio dei bambini, più che rispondere a bisogni dell’educatrice o dell’educatore che c’è in noi.


Se vuoi, alcune riflessioni contenute in questo paragrafo puoi ascoltarle a questo indirizzo: https://youtu.be/aO1pd3ilRds 



Bibliografia


AA.VV. - Regione Marche, Fondazione Montessori, Modello Agrinido di Qualità

https://www.regione.marche.it/Portals/0/Agricoltura/AgricolturaSociale/agrinido/Agrinido.pdf 


Berry Wendell (2009), Mangiare è un atto agricolo, Lindau Editore, Torino 2015


Mancuso Stefano, Plant revolution, Giunti Editore, Milano 2017


Pollan Michael, Una seconda Natura, Adelphi edizioni, Milano 2016



Un'idea di consapevolezza alimentare

Post liberamente tratto da "Orticoltura (eroica) urbana", libro del curatore del blog disponibile su www.mdseditore.it.


Scelte e consapevolezza

Cerco tra vocabolari e dizionari la definizione di consapevolezza e più lo faccio, più mi sembrano inadatti i risultati della ricerca. Poiché vorrei essere certo che chi legge comprenda ciò che dico, spendo qualche riga a spiegare cosa intendo per consapevolezza.

La consapevolezza è fatta di almeno due cose: conoscenza e capacità di porsi domande prima di fare delle scelte. Non posso maturare consapevolezza se non conosco l'argomento su cui divenire consapevole. Conoscere l'argomento, però, non mi rende consapevole. Al massimo mi dà gli strumenti per capirlo. Divengo consapevole quando, prima di compiere un gesto, mi pongo delle domande, rifletto e giungo a una scelta. Spesso, forse sempre, sono domande particolari, domande che, più che i saperi, tirano in ballo dei valori intesi nell'accezione morale del termine. Domande e valori si modificano in funzione del contesto e delle condizioni in cui faccio una scelta.

Provo a chiarire facendo un esempio.

Mia figlia Luna ha la fortuna di esser nata a fine luglio e il suo compleanno è l'occasione per organizzare una piccola festa in giardino*. Invitiamo i suo amici, soprattutto compagni e compagne di scuola, qualche amico di famiglia, i vicini (non tutti!) e qualche parente.

Fin da ragazzino ho avuto una certa propensione per i temi del rispetto dell'ambiente ed è per questo che, e in occasione del compleanno, pur aumentando in modo significativo i costi dell'operazione, posate, bicchieri e piatti sono di materiale compostabile. Fornisco contenitori in cui gettare i rifiuti divisi per categorie (carta, plastica, umido, tutto il resto) e un pennarello indelebile per scrivere il nome sui bicchieri che, intenzionalmente, sono forniti con una certa parsimonia per indurre a un uso ragionato. A fine serata, gli invitati hanno prodotto una certa quantità di rifiuti e devi sapere che passo almeno un'ora della notte a selezionare i rifiuti gettati alla rinfusa nei diversi contenitori predisposti per la raccolta differenziata.

I primi anni mi chiedevo perché in molti non riuscissero a rispettare i criteri di differenziazione dei rifiuti, poi mi sono dato una risposta. La risposta è che gettare un rifiuto nel cestino per molti è un gesto non consapevole. Non lo è perché siano “cattivi” o perché non sappiano nulla di problemi ambientali, lo è perché per lo più veniamo addestrati a fare delle cose anziché educati a fare delle scelte

Ognuno degli amici e parenti che partecipano alla festa di compleanno di Luna conosce il significato di rifiuto. Ognuno di loro sa che non si butta tutto per terra per evitare di lasciare il giardino sporco. Ognuno di loro sa che esiste la raccolta differenziata. Molti di loro sanno che la raccolta differenziata è la premessa per ridurre l'impatto del nostro vivere sul pianeta e per poter recuperare dei materiali per produrre nuovi oggetti, quindi per risparmiare le risorse limitate che ci offre il pianeta. Molti di loro comprendono il perché del pennarello indelebile: se ognuno scrive il nome sul bicchiere può riusarlo più volte, se non per l'intera serata, evitando di consumarne trecento per una cinquantina di persone. In definitiva tutti sono persone informate sui fatti. Aggiungo che quasi tutti sanno due altre cose: che io sono sensibile a questi aspetti e che spesso all'attenta divisione dei rifiuti alla fonte non segue altrettanta attenzione da parte di chi gestisce il servizio di ritiro e gestione dei rifiuti urbani.

Se le persone che passano una serata con me e la mia famiglia, serata che per me è sempre piacevole perché io poi passo un'ora a ri-selezionare i rifiuti?

Perché molti sbagliano la domanda che si pongono quando decidono di buttare i rifiuti. Essi, infatti, si chiedono: «Butto tutto per terra tanto qualcuno pulirà o getto tutto nel cestino per facilitare il conferimento dei rifiuti nel cassonetto più vicino?». Sono un uomo fortunato e tutti rispondono gettando i rifiuti nel cestino. La raccolta differenziata, però, fallisce completamente. A volte, scherzando, lo faccio notare e qualcuno mi dice che «tanto te dividi e poi loro rimettono tutto insieme». Io rispondo che se non dividiamo i rifiuti per bene diamo a loro un alibi perfetto per rimescolare tutto e rendere la massa dei rifiuti indifferenziata e non riciclabile.

Se dico che la domanda è sbagliata vuol dire che potrebbero esisterne di migliori. Provo ad elencarne alcune.

Cosa potrebbe diventare lo scarto di cibo che sto buttando? Potrebbe essere ancora utile? È realmente uno scarto?

Come si potrebbe riutilizzare il bicchiere che sto buttando o il materiale che lo compone?

Cosa potrebbe fare Emilio con la carta che sto gettando? Se non lui, chi potrebbe trarne un'utilità?

Che relazione c'è tra il quaderno in carta riciclata che compro a mio figlio e il piattino che ho in mano?

Come potranno influenzare il domani di mio figlio le posate che getto nel cestino?

Potrei continuare, ma mi fermo perché non è di rifiuti e di raccolta differenziata che voglio parlare, bensì di consapevolezza.

Se tutto ciò che sanno i miei graditissimi ospiti (loro da oggi mi vorranno meno bene, però io continuerò a invitarli perché sono persone piacevoli e in gamba) in merito ai rifiuti generasse una scelta passando attraverso queste (e altre) domande, la loro scelta muterebbe. Probabilmente cambierebbe anche qualche loro abitudine d'acquisto orientandosi verso quei prodotti che generano meno rifiuti. Sì, perché certe domande possiamo porcele quando, di fronte a uno scaffale, dobbiamo scegliere quale prodotto acquistare.

Ecco, per me la consapevolezza è questo: saper compiere delle scelte sulla base di domande che investono il piano morale e che necessitano conoscenza e informazioni senza che la conoscenza si trasformi in procedura operativa, cioè in un gesto che si esegue meccanicamente.

C'è una bella differenza tra fare la raccolta differenziata dei rifiuti perché il servizio di raccolta è organizzato così (una cosa sulla quale sono informato) e farla perché questo assicura un futuro migliore alla nostra comunità, magari aggiungendo scelte d'acquisto che la favoriscono o che favoriscono la riduzione dei rifiuti prodotti. Questa differenza io la chiamo CONSAPEVOLEZZA.


Consapevolezza alimentare

Se mi hai seguito fin qui, posso provare ad andare oltre parlando di un tipo particolare di consapevolezza, quella alimentare.

La consapevolezza alimentare scaturisce dalle domande che posso associare alle scelte che faccio in campo alimentare.

Ognuno di noi compie delle scelte che riguardano sia la propria persona, sia gli altri. In una famiglia riguardano i figli, il coniuge, i fratelli, i genitori, gli zii, ecc. In un'azienda che fa ristorazione, magari collettiva, le scelte ricadono su un numero grande, a volte molto grande, di persone. Nell'amministrazione di un servizio pubblico, penso alle mense ospedaliere o scolastiche, la ricaduta è su migliaia di persone, spesso con esigenze particolari, come bambini, anziani, malati. Se produciamo cibo che va sul mercato, magari nella GDO**, certe scelte, come quella della farina con cui si fanno la pasta o i biscotti, possono ricadere su centinaia di migliaia di persone.

Voglio soffermarmi su un aspetto: la ricaduta di certe scelte non è solo a valle, cioè non riguarda solo chi mangerà certi alimenti, bensì anche a monte.

Sul fatto che le ricadute siano a valle non è facile avere dubbi: se metto in tavola un pane salato o insipido, se do uno yogurt biologico oppure no, se friggo in un olio extravergine di oliva e in un olio di semi tra i più scadenti ed economici, chi mangerà subirà le conseguenze della mia scelta. Non ha molte alternative sul momento. In alcuni casi potrà scegliere. Cosa mangiano i miei figli a casa sostanzialmente dipende dalle mie scelte. Cosa mangiano alla mensa scolastica dipende esclusivamente da un rapporto contrattuale tra l'amministrazione comunale e il gestore della mensa. Quale frutta secca e di quale provenienza sia lo decide il responsabile acquisti del mio supermercato di fiducia, soprattutto se la mia pigrizia mi appiattisce sulla frequentazione di quel solo esercizio commerciale.

In questo momento, però, preferisco concentrarmi su come ci siano ricadute a monte delle mie scelte alimentari. Lo faccio facendo arrabbiare mia moglie*** che, quando mi prepara la lista della spesa, scrive voci estremamente generiche come “mele” o “peperoni”. Spesso scrive con un certo automatismo e sulla base di cosa vorrà cucinare nei giorni seguenti. Così i “fagiolini” capitano indistintamente a luglio e a gennaio. Al mio ritorno spesso assume l'espressione di chi non è soddisfatto e quasi sempre la accompagna con la frase «Non c’è niente da fare: se non me la faccio da sola, la spesa non mi soddisfa».

Se mi metto nei suoi panni, la capisco e le esprimo solidarietà, ma io, mentre faccio la spesa, mi pongo delle domande basate su una mia personale consapevolezza. Sono domande semplici che ho il vantaggio di poter formulare grazie a una laurea in scienze agrarie (a qualcosa dovrà pur servire una laurea!) e alle riflessioni che mi hanno portato ad occuparmi di educazione ambientale e alimentare. Le mie domande sono di questo tenore:

Dove sono prodotti e cosa sono i cibi che compro e i loro ingredienti?

Quanta strada percorrono e come la percorrono?

Se si tratta di ortaggi o frutta fresca, sono di stagione nel luogo in cui vivo o almeno nel mio paese?

Quali ricadute ha la loro produzione sul territorio da cui provengono?

Chi lavora nel processo produttivo e di trasporto?

C'è un prodotto alternativo il cui confezionamento riduce i rifiuti?

Forse ce ne sono altre, ma non c'è alcun bisogno di proseguire l'elenco: ciò che fa arrabbiare chi scrive la lista della spesa è il risultato finale delle scelte scaturite da queste domande, e cioè il fatto che compro cose diverse da quelle che comprerebbe lei che, al contrario, si interroga soprattutto sulle ricadute a valle. Io, invece, per sua sfortuna penso molto a come cambiano gli scenari che stanno a monte.

Così compro i fichi secchi dell'Egeo****, maledicendo il fatto che non ne trovo di toscani, anziché quelli californiani perché preferisco alimentare l'economia di un paese europeo e riduco l'impatto del trasporto del prodotto. Tra le mele scelgo quelle di una varietà bruttina ma che so, o immagino essere, più resistente alle malattie, quindi meno bisognosa di trattamenti antiparassitari, e appartenente a una di quelle varietà che rischiano di scomparire se le nostre scelte di acquisto si omologano al modello "mela di Biancaneve secondo Disney". Nell'acquisto delle uova mi assicuro che si tratti di uova fatte da galline allevate a terra. Di fronte alle brioches preferisco quelle prodotte in Toscana a quelle prodotte in altre regioni italiane. E l'olio, oltre che extravergine d'oliva, lo scelgo almeno italiano, se non toscano. Le arance le preferisco siciliane anziché spagnole perché preferisco alimentare l'economia italiana rispetto a quella spagnola. Compro gli spaghetti di Libera per aiutare il rispetto della legalità laddove ci sono organizzazioni mafiose. Di nuovo, potrei proseguire a lungo.

Le scelte alimentari, dunque, hanno ricadute a monte e a valle: in una qualche zona montana d'Italia qualcuno presidierà il territorio producendo mele biologiche grazie al mio acquisto e i miei figli saranno educati a mangiare (o almeno a vedere nella fruttiera) mele che esprimono un'identità culturale che è la nostra e non quella made in USA. Intanto la mela da agricoltura biologica non avrà i residui di alcuni fitofarmaci utilizzati altrove e i miei figli mangeranno meglio, mentre la comunità in cui vive il produttore delle mele avrà almeno una famiglia con delle opportunità di reddito, quindi ci saranno meno probabilità che qualcuno debba andarsene a vivere altrove. Questo si trasforma in una garanzia di tenuta del tessuto sociale e di tutela del territorio.

Quanto ho appena descritto non è solo una forma (migliorabile) di consapevolezza alimentare, ma qualcosa di più: è quella che io considero la strada per il futuro, e cioè una ridefinizione del destino delle nostre comunità e del nostro territorio legata alle nostre scelte alimentari. Be', in realtà il concetto può essere esteso ben al di là del comparto alimentare, ma l'alimentazione crea un legame stretto e immediato con l'agricoltura, cioè con la più diffusa ed economica forma di gestione del territorio, e con le comunità rurali.

Ho calibrato il ragionamento su di me perché vorrei condividere un principio molto semplice: sono le nostre scelte che influenzano un certo modo di essere del mondo. Se deleghiamo ad altri le nostre scelte alimentari, il nostro paesaggio, il tessuto sociale del nostro paese, la salute dei nostri figli (e la nostra), tutte queste importanti cose saranno indirizzate e determinate da altri. Se scegliamo da soli con un pizzico di consapevolezza daremo un piccolo contributo a un mondo diverso grazie alle ricadute delle nostre scelte sia a valle, sia a monte. Io sono Emilio e sono uno solo, ma se da domani anche una sola persona legge questo post e cambia idea saremo due. Se quella persona parla con una terza persona e anche questa diviene consapevole, saremo in tre. Pian piano diverremo milioni e la forza del cambiamento sarà enorme.


Orti urbani: cosa sono e quanti tipi ne esistono?

Si definiscono orti urbani le coltivazioni di ortaggi non destinate alla vendita che si collocano in spazi urbani. La natura urbana, però, non è definita sulla base di norme urbanistiche o di tratti architettonici o paesaggistici, bensì in relazione agli stili di vita delle persone che li coltivano. In tal senso, sono urbani anche gli orti che nascono in alcuni borghi rurali nei quali l'agricoltura professionale fa da sfondo alla vita delle persone senza caratterizzarla. La coltivazione degli orti urbani può avvenire per scopi vari e diversi potendo essi assolvere a funzioni differenti. E' per questo che, sulla base di una proposta avanzata nell'ormai lontano 2014, possono essere classificati nelle categorie di seguito descritte.


Orti privati

Coltivazione di ortaggi su un balcone.

Sono spazi vicini all'abitazione di chi li coltiva che ospitano ortaggi destinati al consumo fresco o alla trasformazione per il consumo dopo un periodo di conservazione. Spesso vi si coltivano anche piante annoverate tra i seminativi o tra le colture industriali, come il mais e il girasole. Possono essere orti in pieno campo nati su scampoli di terreno non edificato o sulla resede delle abitazioni oppure orti in contenitori di varia natura posizionati sui balconi o nei cortili. Fanno parte di questa categoria gli orti di cui si dotano i ristoranti e quelli coltivati in realtà condominiali su appezzamenti di terra di proprietà esclusiva. Sono, invece, orti condominiali condivisi quelli che vengono coltivati in forma collettiva negli spazi condominiali comuni.


Gli orti sociali di Palmanova (UD)
Orti sociali

Si tratta di terreni di proprietà pubblica preventivamente divisi in appezzamenti di misura definita (30-80 metri quadrati), forniti di alcuni servizi base, come l'allaccio a un impianto irriguo, e il cui utilizzo è specificamente regolamentato. Sono affidati in concessione a privati cittadini, associazioni, scuole e altre organizzazioni. Tale affidamento è temporaneo per periodi di 3-5 anni e prevede tanto la corresponsione di un canone, quanto il rispetto di uno specifico regolamento. Quest'ultimo prevede limiti all'impiego di sostanze chimiche, alla realizzazione di opere murarie, al posizionamento di manufatti e arredi (es. casette utilizzate come rimesse attrezzi) e allo sviluppo in altezza di colture e pali tutori per evitare l'ombreggiamento tra i lotti. Di solito non è consentito l'allevamento di animali. Talora esistono edifici o spazi d'uso comune tra gli assegnatari. Generalmente i singoli appezzamenti non hanno una vera e propria recinzione, sebbene siano delimitati, mentre gli orti nel loro complesso sono recintati. Infine, può essere previsto un organismo che riunisce gli assegnatari (un comitato, un'assemblea o un’associazione) il cui funzionamento è specificamente regolamentato. Esso decide in merito ad alcuni aspetti della gestione degli spazi comuni, con particolare riferimento a tutto ciò che genera costi da riversare sui singoli assegnatari. Talora nella vita degli orti sociali sono coinvolte associazioni locali o anche nazionali. Queste in alcuni casi danno vita a iniziative di informazione e formazione a favore sia degli assegnatari, sia di chi è interessato alla coltivazione di orti in città.

Gli spazi di coltivazione del progetto"un giardino per rivere"
dell'IRCCS San Camillo di Venezia
Orti con finalità terapeutiche

Sono spazi coltivati in cui si praticano attività di orto-terapia, terapia occupazionale o volte al superamento della barriera paziente / personale sanitario. Sono inclusi in questa categoria i cosiddetti giardini Alzheimer ideati e realizzati per offrire occasioni di stimolazione e accoglienza a chi è colpito da questa particolare sindrome. L'organizzazione degli spazi, la presenza di strutture specifiche e la gestione con personale specializzato sono elementi portanti di questo tipo di orto urbano.


Un esempio di orto civico: l'Orto del Giardino
della Lumaca di Pietrasanta (LU)
Orti civici 

Sono orti che nascono e crescono in spazi urbani di proprietà pubblica per opera di gruppi di cittadini che conducono forme di coltivazione condivisa. Si tratta di orti la cui funzione prevalente è quella della socializzazione e dello sviluppo di dinamiche di comunità.

Orti conviviali 

Si tratta di orti la cui funzione principale è quella di favorire l’incontro tra le persone e di fornire occasioni di convivialità. Essi possono essere aperti a tutta la cittadinanza o prevedere la partecipazione ai lavori e ai momenti ricreativi e culturali solo a gruppi ristretti.

Gli orti urbani di Via Goito a Livorno
sono un tipo esempio di orto di riconquista.
Orti di riconquista

Sono aree coltivate con ortaggi che nascono quale strumento di riappropriazione di spazi urbani caduti in condizioni di degrado o soggetti a speculazione edilizia nei quali la rivendicazione di funzioni del territorio e forme del paesaggio maggiormente identitarie passa attraverso la coltivazione, talora abusiva, di orti. Essi costituiscono spesso uno strumento transitorio ed efficace nel determinare una ridefinizione delle destinazioni urbanistiche e delle forme d'uso di spazi agricoli fagocitati dalla città.


L'orto scolastico può assumere fisionomie
insolite per rispondere a precisi obiettivi educativi e didattici.
Orti urbani didattici

Si tratta di orti che nascono in ambito urbano per finalità didattiche, spesso in coerenza con specifiche progettualità socio-educative. Appartengono a questa categoria gli orti scolastici e gli orti educativi, cioè quelli presenti nelle pertinenze di scuole e servizi educativi. Questi ultimi due, in particolare, sono ideati, progettati e gestiti al fine di perseguire obiettivi tipicamente non produttivi. Il raccolto di ortaggi è, quindi, accessorio alle opportunità di apprendimento che essi offrono a bambini e ragazzi. Gli obiettivi della coltivazione sono pertanto coerenti con le Indicazioni Nazionali per il Curricolo della scuola e ai progetti educativi dei singoli servizi, quali nidi, spazi gioco e ludoteche. Una particolare declinazione dell'orto didattico è quella dell'orto in carcere nel quale sono perseguite finalità educative tese alla reintroduzione nella vita civile dei detenuti.


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Bibliografia dell'articolo

E. Bertoncini, Orticoltura (eroica) urbana, MdS editore, Pisa 2014

E. Bertoncini, L’orto delle Meraviglie, MdS editore, Pisa 2015

E. Bertoncini – “Lezioni dalla natura - orti didattici e scolastici in ambito urbano” - in ACER – Parchi, verde attrezzato, recupero ambientale Anno 33 – n.3 , maggio - giugno 2017





Artisti del paesaggio

Questo post intende essere prevalentemente un ringraziamento a chi, quotidianamente, si prende cura di veri e propri affreschi di paesaggio. Come i ritratti della saga di Harry Potter, i soggetti delle opere d'arte in questione non sanno stare fermi, mutano di stagione in stagione, talora di ora in ora. Altrettanto vivaci sono, a tratti, i loro manutentori o, per meglio dire, pittori, scultori e restauratori che non conoscono altra pausa che quella che si rende necessaria per costruire la scenografia in cui si inserisce il loro capolavoro. Si tratta di paesaggi che, nella cornice del nostro sguardo, possiamo considerare vere e proprie opere d'arte, dipinti su una tela che la natura ha voluto offrirci a suon di sollevamenti e piegamenti della crosta terrestre, deposizione di sedimenti, raccolte d'acqua, acrobazie di semi volanti, climi che nemmeno sappiamo concepire e tutte le millemila* condizioni ambientali che influenzano la vita sulla terra.

Artisti (quasi) a propria insaputa, con la modestia di chi assolve ad un dovere che va oltre ogni ragionevole orizzonte temporale

Alpe Pirlo, su una pendice come tante delle Alpi Retiche, qualche giorno fa.

"Scusate, posso scattarvi qualche fotografia?". La risposta alla mia domanda è un semplice gesto composto da un sorriso e una mano che si alza, nemmeno una parola. Un gesto che interrompe il moto di un rastrello che non si ferma da ore, da quando si è spenta la falciatrice. Poi una voce quasi assente a se stessa dice alla compagna di lavoro qualcosa che suona come "Ce le fanno tutti senza dirci niente, che strano che è questo che ce lo chiede!". Parole pronunciate mentre il rastrello procede avanti e indietro facendo nascere piccoli mucchi di erba appena tagliata, mani e braccia che sembrano muoversi quasi senza sapere il perché. Un movimento che sembra involontario, proprio come quello del cuore, organo a cui ci sforziamo di attribuire sentimenti, ma non ragione, non pensiero. Cuore che pulsa sapendo che quello è il suo dovere, ma senza sapere perché vadano alimentati un cervello e molti altri organi, un organismo che fa cose nel mondo. Quali siano queste cose non sembra contare, salvo che di tanto in tanto le contrazioni aumentano senza una causa fisica, solo perché un'emozione trascina il sangue chissà dove. Quelle braccia sembrano muoversi allo stesso modo. Muovono, di fatto, un pennello che rinnova l'affresco dell'Alpe, un pennello che si muove per volontà di due artisti apparentemente inconsapevoli, modesti come chi assolve solo ad un dovere, niente più. Dico inconsapevoli anche se, un po' come "L'uomo che piantava gli alberi", sembrano saperne più di tutti e danno l'impressione di aver trovato un bel modo di essere felici: quello di custodire oltre ogni ragionevole orizzonte temporale, un'opera d'arte nata secoli fa.



(se non vedi il video in questo spazio, segui questo link: https://youtu.be/Vycb0zyZpqM)

L'agricoltura, un'arte sacra

Mi sono mosso nell'affresco dell'Alpe Pirlo con lo zaino appesantito da un libro che sta influenzando il mio sguardo sulla vita: "Walden, ovvero vita nei boschi". Credo che la gran parte dei miei coetanei non lo abbia letto, ma conosca bene un suo passo, pur rimodulato nella sua versione cinematografica, cioè questo: "Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto". Sono le parole di Henry David Thoreau forse più note al grande pubblico, ma non le uniche. Ce ne sono altre che aiutano a riflettere, quelle che seguono:

La poesia e la mitologia dell'antichità suggeriscono, almeno, che un tempo l'agricoltura era un'arte sacra; ma essa è ora perseguita da noi con fretta e trascuratezza irriverenti, essendo il nostro solo obiettivo avere grandi poderi e grandi raccolti.

Leggerle e rileggerle lungo i sentieri che muovono noi escursionisti sulle Alpi Retiche sembra indispensabile per almeno due buoni motivi. Il primo, più immediato, è che quella fretta e trascuratezza irriverenti sembrano albergare anche nei nostri passi, sempre agili nella ricerca di un qualcosa che, se coglie la nostra attenzione, al massimo entra nel novero dei nostri scatti fotografici, alberga nelle velleità di fotografi senza tempo, sempre di fretta, attenti a quel che si vede, ma quasi mai veramente intenti a guardare. Il secondo, decisamente più importante, è che a metà del diciannovesimo secolo Thoreau aveva visto che ciò oggi stentiamo a riconoscere: una certa declinazione dell'agricoltura le avrebbe tolto la sacralità di un'arte per ridurla nel miraggio di grandi raccolti che, se assicurano una vita dignitosa, forse tolgono un ruolo a chi la pratica e la delizia dello sguardo a molti fruitori dei luoghi in cui si svolge. Sì, l'Alpe Pirlo è opera d'arte, ma quanti paesaggi agricoli moderni ci lasciano storditi, un po' come accade di fronte a quelle installazioni di arte moderna che vogliono farci riflettere, provocarci, ma non sempre ci riescono? E quante volte lo stupore di fronte ad affreschi avvelenati da una certa agricoltura è frutto delle campagne di marketing o di una nostra complice ignoranza? Quante volte ci sembra arte agricola ciò che in sostanza è un semplice impianto produttivo, una zona industriale in cui cemento e acciaio sono sostituiti da fusti e zampe? Quante cartoline per turisti finiamo per riconoscere in un paesaggio che mima un affresco senza esserlo, talora con la feroce superbia di un Qr-code che sembra voler comunicare quando, invece, è illeggibile ai nostri occhi?

La poesia in soccorso della multifunzionalità

Queste domande non possono che sollecitare l'agronomo che ancora vive in me, sebbene stordito di fronte a un'agricoltura troppo spesso lontana dalla poesia, dalla sacralità dell'arte agricola. Si materializza così davanti a me la parola "multifunzionalità", quella che letta da molti eruditi dell'agricoltura ancora oggi rimane un mistero da comprendere, una definizione che sembra sfuggire al produttivismo che connota l'idea moderna di agricoltura. Ecco cosa dice l'OCSE, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in merito:

Oltre alla sua funzione primaria di produrre cibo e fibre, l’agricoltura può anche disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità, gestire in maniera sostenibile le risorse, contribuire alla sopravvivenza socio-economica delle aree rurali, garantire la sicurezza alimentare. Quando l’agricoltura aggiunge al suo ruolo primario una o più di queste funzioni può essere definita multifunzionale.

Disegnare il paesaggio, almeno ai miei occhi, è un'espressione riduttiva. Avrei preferito dipingere o scolpire, gesti umani che sembrano dare vita a ciò che vivo non è, un po' come i movimenti dell'uomo che coltiva rendono arte ciò che risponde ai bisogni fondamentali delle persone.

Lo scrivo ed esito un po'. Quali sono questi bisogni fondamentali? Se è vero che noi del mondo fortunato mangiamo tre volte al giorno, ci è davvero sufficiente, oltre che necessario? Qualcuno mi ha detto che un bisogno innato dell'umanità è narrare. Per questo abbiamo un linguaggio, leggiamo, scriviamo, abbiamo inventato il teatro, il cinema e i fumetti. Non è forse rispondere a questo bisogno il movimento perpetuo di quel rastrello, non è forse infondere poesia in un affresco senza fine, proprio perché vivo? E non ce lo dice così bene Franco Arminio nel suo "Cedi la strada agli alberi"?


Abbiamo bisogno di contadini,

di poeti, gente che sa fare il pane,

che ama gli alberi e riconosce il vento.

Più che l’anno della crescita,

ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.

Attenzione a chi cade, al sole che nasce

e che muore, ai ragazzi che crescono,

attenzione anche a un semplice lampione,

a un muro scrostato.

Oggi essere rivoluzionari significa togliere

più che aggiungere, rallentare più che accelerare,

significa dare valore al silenzio, alla luce,

alla fragilità, alla dolcezza.


E cosa fa quel rastrello se non togliere, rallentare, dar valore al silenzio, alla luce che carezza i mucchi dal profumo erboso, alla fragilità di un luogo magico, alla dolcezza che ispira lo sguardo che vi si posa?

Per tutto questo e molto altro che è difficile tradurre in parole, nasce il mio grazie a chi, quotidianamente, si prende cura dei nostri affreschi di paesaggio.


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* so bene che questo numero non esiste, ma lavoro molto con i bambini e so che una licenza poetica può riguardare tutto, anche i numeri.