Casa con giardino - per un Eden figlio del lockdown

Non mi è chiaro se questo post sia destinato ad avere una natura professionale o se sia una semplice riflessione personale condivisa nel web. E non so nemmeno in quale giorno abbia avuto inizio il ragionamento che cerco di mettere per iscritto.

So che da bambino ho avuto la fortuna di crescere in una casa della campagna lucchese che aveva attorno un fazzoletto di terra malandato e fantastico per le mie esperienze educative non scolastiche. Era malandato perché la mia famiglia non aveva un'idea particolarmente evoluta di giardino, perché l'origine contadina e montanara dei miei genitori trovava negli spazi verdi utilità non troppo urbane, perché la casa stessa stava crescendo ed era in perenne costruzione, quindi le energie per il giardino non c'erano.

Quel fazzoletto di terra, però, era ricco di opportunità e me ne resi conto molto presto. Era un laboratorio in cui sperimentare situazioni che a scuola sarebbero diventate la fisica, la chimica, le scienze biologiche e motorie e molto altro. Era uno spazio in cui scorrazzare con la bicicletta, in cui stare con gli amici, in cui si piantavano alberi senza una regola, in cui cresceva l'orto, in cui scorrazzavano amici e animali.

Non era uno spazio esente da minacce per la sua stessa esistenza. Ero un bambino negli anni '70 e un ragazzino negli anni '80. Anni in cui si sognava e si soffriva, come in tutti decenni della storia, ma anche anni terribili in cui la modernità afferiva a molte delle cose da cui oggi prendiamo le distanze. E da ragazzino imparai che quello spazio aveva bisogno di essere difeso. Difeso dall'idea di asfaltare tutto per renderlo "bello, funzionale e facile da tenere pulito". Difeso dalla variante "autobloccanti", nient'altro che un nuovo modo di pavimentare e togliere di mezzo il prato che, anche quando incolto, richiedeva manutenzioni. Difeso dall'idea di costruire un piccolo annesso, un garage, un ampliamento dell'abitazione e chissà cos'altro non ricordo. Ricordo, però, lo sguardo incredulo di mio padre che sperava nel mio entusiasmo per le novità, per le opportunità e che mi trovava sempre in dissenso. Una contrarietà che, di tanto in tanto, si esprimeva con un "avrò bisogno di un giardino per i miei bambini". In effetti, così è stato.

Intanto la mia vita, anche professionale, si è sviluppata in modi assai strani. Mi sono laureato in scienze agrarie, ho seguito un corso di perfezionamento in Parchi, giardini e aree verdi, ho accumulato tomi sulla progettazione e gestione del verde, mi sono avventurato nel mondo educativo arrivando ad essere un esperto di "orto e giardino educativo" e sono diventato padre. In tutto questo percorso ho amato e odiato il mio giardino, ho cercato di "correggerlo" facendo errori peggiori di quelli che cercavo di risolvere. Più cercavo di razionalizzarlo e più non riuscivo a cedere ad una strana abitudine di famiglia: piantare alberi dove non c'è spazio per gli alberi. Così ora in quel giardino ci sono due ginkgo biloba nati da semi raccolti dalle mie mani, un ciliegio trasportato nella sua gioventù in un'auto che non riusciva a contenerlo e un cipresso che sembra voler testimoniare l'unica scelta azzeccata e il passare del tempo. E poi tanta confusione agli occhi di chi spera in un giardino rispondente ad un qualche stile, ma nella quale leggo orgogliosamente tanta biodiversità. E, ancora oggi, tanta sperimentazione: è da lì che sono passati i miei tentativi di orticoltura urbana, dagli orti in contenitore a quello ispirato al sinergico.

Insomma, il "mio" giardino rimane un luogo incerto e confuso di sperimentazione, dai primi passi dei miei figli ai miei tentativi di approcciarmi a cose che mi appassionano o che cerco solo di scoprire, di conoscere meglio, dall'attesa per gli esiti di un intervento progettato allo stupore della bellezza che scaturisce dall'azione imprevedibile della natura. E' lo spazio in cui spesso ho cercato di sperimentare le funzioni del verde urbano (sì, perché la "mia" casa è in campagna, ma la recinzione del giardino è il confine netto tra lo stile di vita urbano e quello rurale, tra mondi che non sempre dialogano) così come potete trovare inquadrate cliccando su queste parole. Un laboratorio che da sempre considero importante, ma che in questi giorni di lockdown è diventato uno spazio prezioso in cui sperimentare le libertà residue nel regime di restrizioni imposte dal Governo Conte bis.

Per ironia della sorte, mi trovavo in giardino intento ad osservare una merla con cui ho quasi fatto amicizia quando, facendo un po' di scroll sui social, quando mi sono imbattuto nell'immagine che si vede qui sotto.


In un attimo ho rivisto tutta la storia del "mio" giardino, ma soprattutto quella di una battaglia che vedevo persa e avevo affrontato in sospeso tra un certo animo ambientalista e il mio sforzo professionale. Sì, perché a quel corso di perfezionamento è seguito il tentativo di contribuire allo sviluppo di una cultura del verde nel mio paese, l'Italia, ma dopo alcuni anni ho dovuto desistere di fronte alle resistenze culturali della comunità in cui vivo, al rifiuto generalizzato di far entrare le buone prassi del giardinaggio e delle scienze del paesaggio nel nostro quotidiano. Dopo anni di corsi fruiti e di docenze svolte per i soggetti più disparati, di tentativi di portare all'interno di aziende, cooperative ed enti almeno quel poco che conoscevo, un giorno, di fronte all'ennesimo scempio di alberature eseguito da una potente motosega sotto l'egida di un'istituzione, ho deciso che il mio contributo a quella causa era ormai esaurito, non più utile. Forse è anche per quella cocente delusione che mi sono dedicato al mondo educativo, a quei piccoletti che muovendosi in piccoli paesaggi e giardini potranno sviluppare una sensibilità nuova, capace di indirizzare il futuro.

Ma quell'immagine ha fatto molto di più in me: ha risvegliato un Emilio che, salvatosi dalla crisi da lockdown proprio in giardino (è lì che ho riseminato una parte del prato, continuato a coltivare l'orto quasi sinergico, girato video-saluti per i bambini dei nidi in cui lavoro, seminato ortaggi in contenitori, letto libri, fatto amicizia con la merla, pranzato, parlato, piantato e giocato con i miei figli, sognato, osservato le stelle e l'arcobaleno, l'alba e il tramonto, pianto, fatto ginnastica, distrutto buoni propositi di inizio pandemia, ideato "gli alberi della pandemia" e molto altro), è tornato alla vecchia idea che la qualità del vivere non può essere mero rispetto di requisiti minimi, come le superfici riservate al verde negli strumenti urbanistici, ma fatto culturale. Sì, ora più che mai è tangibile il fatto che ci sia l'occasione per far ripartire un pensiero deburocratizzato in cui le persone vengono prima di un comma di legge e di un'opportunità finanziaria, per porre i fabbisogni delle persone alla base della piramide del benessere, per porre il giardino, un giardino per ognuno, tra i diritti inalienabili dei bambini di oggi e di domani. Un giardino domestico, cittadino, scolastico che possa essere laboratorio per un nuovo modello culturale in cui le App dei dispositivi elettronici siano un complemento e uno strumento utile alla crescita culturale delle nuove generazioni, non il fine di un'esistenza o il sedativo di un cattivo vivere.

In fondo, potrebbe essere un ritorno all'Eden da cui molte tradizioni lasciano intendere sia iniziata la storia dell'umanità.

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"I giardini, in realtà, sono due: uno più o meno immaginario, l'altro pervicacemente reale. Il primo è il giardino dei libri e dei ricordi, quella vagheggiata utopia all'aria aperta, senza moscerini e sempre in fiore, dove la natura risponde ai nostri desideri e noi immaginiamo di sentirci perfettamente a nostro agio. Il secondo giardino è un luogo reale, a Cornwall, nel Coonecticut: circa due ettari di terreno collinare roccioso e difficile da gestire, per coltivare il quale mi sto arrabattando ormai da sette anni. Molto separa questi due giardini, tuttavia ogni anno li porto un po' vicini a coincidere."

Michael Pollan in "Una seconda natura"




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