Prologo
E' domenica 8 marzo e sto terminando una passeggiata con mio figlio Diego quando sento l'inconfondibile notifica sonora di WhatsApp. E' quello il momento in cui scopro che il mio status giuridico sta per cambiare: un'ordinanza regionale che di lì a poco sarà firmata dal governatore della Toscana mi collocherà tra le persone che devono porsi in "autoisolamento fiduciario". Sì, la Lombardia che ho frequentato nei giorni scorsi per motivi di lavoro poche ore prima è diventata "zona rossa" nella lotta al Covid-19 e, precauzionalmente, io sono soggetto a rischio che dovrà limitare i propri spostamenti e contatti sociali. A me è sostanzialmente precluso ogni movimento, anche a "chilometro zero". Eppure, per me, genitore e strano personaggio che frequenta il mondo educativo, quella distanza risulta preziosa. Anzi, da quando le scuole sono chiuse, i miei figli a casa e io disoccupato, abbiamo cercato di valorizzarlo, sia per trascorrere del buon tempo, sia per dare una dimensione educativa a questo imprevisto tempo sospeso.
Foto presa in prestito dalla pagina Facebook "Orto contadino di Lucca" |
Il chilometro zero
Proprio in questi giorni, anche grazie alla mia abitudine di condividere sui social le immagini di ciò che faccio, ha iniziato a rimbombare nella mia testa l'espressione chilometro zero educativo. Inutile dire che è mutuata dal concetto di chilometro zero di cui da anni si parla per le modalità di approvvigionamento alimentare. L'idea di fondo è quella di ottenere dei benefici di vario tipo, da quelli ambientali a quelli sociali, acquistando prodotti che percorrono un breve tratto di strada dal luogo di produzione a quello di consumo. E' evidente che non si può essere pignoli nel rispetto della definizione, altrimenti molti di noi rimarrebbero senza cibo. L'idea, però, è quella di approvvigionarsi, ciascuno secondo le proprie possibilità, di alimenti che, per giungere sulla nostra tavola, percorrono la minor distanza possibile. Ciò non significa rinunciare a qualcosa, ma sceglierlo con un'attenzione in più. Per esempio, a me piacciono i fichi secchi che, però, non vengono prodotti nel territorio in cui vivo. Posso, comunque, trovarli in commercio prevenienti dalla Calabria, dalle Isole dell'Egeo e dalla California. Il principio del chilometro zero è quello che mi porta a scegliere i primi. Purtroppo, più l'area di produzione si avvicina a me e più le modalità di funzionamento del mercato rischiano di trarmi in inganno perché quel prodotto potrebbe fare, a mia insaputa, una lunga strada prima di arrivare nel luogo in cui lo comprerò. Per questo si privilegia, quando è possibile, l'acquisto in azienda o presso i mercati contadini in cui gli agricoltori con brevi spostamenti ci avvicinano i propri prodotti. A questo criterio da tempo si è affiancato quello dell'acquisto solidale, cioè l'acquisto di qualcosa che, a chilometri zero o meno, vada a supportare realtà meritevoli di aiuto. Questo permette, ad esempio, di acquistare prodotti "oltre il chilometro zero" sostenendo, però, realtà virtuose dal punto di vista sociale o ambientale. Nelle mie esperienze ci sono i prodotti che mi permettono di sostenere chi coltiva sui terreni liberati dalla mafie o quelli di comunità in cui gruppi umani in conflitto riescono a collaborare.
Chilometro zero educativo - un possibile significato
Quale potrebbe essere il significato di "chilometro zero educativo" e quali potrebbero essere le sue utilità una volta che, superati i giorni difficili della pandemia, cercheremo di ricostruire una "normalità"?
Intanto, cerco un appiglio pedagogico ricordando le parole con cui il pedagogista Antonio Di Pietro in una formazione congiunta ha ribadito che l'educazione è in ogni luogo e in ogni momento. Quanto provo a scrivere, quindi, potrebbe prescindere dal contesto educativo di riferimento, essendo ogni contesto luogo educativo. Provo a pensare, però, ad alcuni luoghi di elezione cioè la nostra casa, il nido e la scuola. Rispetto a questi luoghi, il chilometro zero educativo altro non è che l'insieme delle risorse disponibili a breve distanza per attivare o sostenere percorsi educativi. Il chilometro non va inteso come limite geometrico, ma come distanza limite raggiungibile con mezzi ordinari. Potranno essere poche decine o centinaia di metri per il nido d'infanzia o per quando siamo a casa con bimbi molto piccoli o qualche chilometro quando davanti alla scuola c'è la fermata dell'autobus. E' l'insieme dei luoghi facilmente frequentabili. Tutto qui, ma c'è bisogno di parlarne perché in molti casi e per vari motivi quel chilometro è un tabù. Mettendo da parte i casi in cui c'è una impossibilità di frequentazione dovuta a insormontabili condizioni di sicurezza, situazione che dovrebbe farci riflettere sulla collocazione di molti servizi educativi e scuole e sulla qualità urbanistica dei luoghi in cui viviamo, a me preme fare un invito alla riflessione sui limiti che ci diamo culturalmente.
Sì, perché nella nostra moderna società italiana il mancato sfruttamento di quell'orizzonte è soprattutto dovuto a limiti soggettivi di origine culturale. Penso, per esempio, a chi oggi è genitore, educatore o insegnante privo di un'esperienza oltre la soglia. Quanti di noi hanno avuto un'infanzia e un'adolescenza sufficientemente "spericolata" e vocata all'outdoor? Chi ha corso lungo le sponde del fiume, è caduto rovinosamente in bicicletta o è scivolato in un torrente? E chi si è perso nel bosco o nel proprio quartiere? Chi si è avventurato lungo un fossato che passa sotto una strada statale? Chi, cioè, tra le figure sopra menzionate ha avuto un'esperienza quotidiana in qualche modo "al limite", pur in contesti ordinari? Chi, quindi, si sente sicuro nel chilometro zero educativo? Molti di coloro che leggeranno questo articolo potrebbero dire "io!", lo so. Questo potrebbe, però, dipendere dal fatto che la nostra comunicazione mette spesso nella stessa "stanza" persone già interessate al tema, ma qui dovremmo riflettere, sulla generalità dei genitori, degli educatori e degli insegnanti. Le cose, forse, cambierebbero un po'. Ma siamo solo all'inizio perché nella nostra distorsione culturale l'educazione e la scuola si fanno dentro. Ne è prova il fatto che chiunque di noi identifica la scuola o il nido nell'edificio, non nella porzione di terreno che ospita anche l'edificio. L'idea più diffusa è che si apprende stando al chiuso. Così, uscire fuori si colloca culturalmente in un momento di svago (come se apprendere modi per svagarsi non fosse un apprendimento) e l'accezione dello star fuori richiama la ricreazione e le gite della scuola. A ben vedere, anche questi momenti hanno una valenza educativa, ma la nostra società dà loro ben poco valore. Eppure, fuori, oltre la soglia, con aria svagata e leggerezza o con la seriosità (che è diversa dalla serietà) che alcuni preferiscono, si possono apprendere cose importanti. Giocare fuori in presenza di qualcuno che a intervalli regolari ci fa notare lo spostamento di un'ombra, è uno dei modi migliori per comprendere e portare sul piano della realtà il moto di rotazione del pianeta e i cambiamenti che si verificano stagionalmente, come l'allungarsi e accorciarsi delle ombre dovute alla luce solare. Proviamo a superare anche questa resistenza e pensiamo a quali altri ostacoli culturali poniamo sulla nostra strada. Fuori non c'è l'omeotermia indotta dal nostro ambientalmente sconsiderato utilizzo delle fonti energetiche. Già, fuori può essere freddo o caldo, anche molto freddo o molto caldo. E noi siamo sempre meno abituati a queste condizioni. In più, può piovere, nevicare, grandinare, tirare vento. E tutto questo ci fa pensare a quanto potremmo star male prendendo freddo, alle possibili malattie o malesseri, dalla tosse (che strano parlarne in tempi di Covid-19!) all'insolazione. E poi, fuori ci si può far male più facilmente.
Già, perché il chilometro zero educativo potrebbe non essere "a norma", potrebbe offrire occasioni per farsi male e, purtroppo, la distorsione educativa di questi tempi ci induce a pensare che i pericoli siano tutti da evitare, senza cogliere il valore educativo di quelli che ci espongono a rischi accettabili generatori di apprendimenti. Così, le infinite escoriazioni e piccole o grandi ferite delle mie infanzia e adolescenza, condotte come poco sopra descritto, oggi non esistono quasi più. Eppure, è da quei momenti che ho appreso alcune delle cose più importanti per la mia sicurezza attuale. Certo, a ben pensarci, a volte ho corso rischi inaccettabili, almeno con lo sguardo di oggi. Questo mi suggerisce di andarci cauto, di utilizzare l'analisi dei rischi come strumento per discernere tra le circostanze rischiose nel presente che generano apprendimenti essenziali per la vita futura dei bambini e dei ragazzi e quelle circostanze che non merita far vivere loro perché statisticamente qualcuno potrebbe non sopravvivere. Però questo significa tentare di cogliere delle opportunità.
Provo a chiudere l'elenco con un ultimo aspetto: siamo una società giuridicamente ipertrofica che offre facilmente il fianco alla minaccia di denuncia. Questo vale soprattutto per chi lavora nei servizi educativi e nella scuola e, come se non bastasse, va di pari passo con la capacità di confondere denuncia e condanna. Così i temi della responsabilità e della sicurezza si invischiano e diventano minaccia insormontabile facendo soccombere la responsabilità educativa a favore di quelle giuridicamente connesse ai temi della sicurezza e dell'igiene. Il quadro descritto fa sì che il chilometro zero educativo debba iniziare dalla porta di scuole, servizi educativi e case e non dal cancello. Sì, spesso anche il giardino è luogo estraneo ai fatti educativi.
Il chilometro zero educativo, quindi, inizia lì, proprio sulla soglia che, anziché separare il dentro dal fuori, sembra separare il possibile dall'impossibile. Per molti il chilometro zero è utopia. Fortunatamente, c'è chi nelle utopie vede le opportunità.
Chilometro zero educativo - alcune opportunità
La prima cosa che mi viene da pensare è che potremmo apprendere che i luoghi dell'apprendimento sono luoghi normali e a portata di mano. Nel nostro chilometro zero educativo ci potrebbero essere un campo incolto, un bosco, un museo, un piazzale abbandonato, il fruttivendolo, l'azienda agricola, il mercato rionale, il giardino di una villa, un parco urbano, una spiaggia, un fiume, un torrente, una fabbrica, la carrozzeria, una libreria, una biblioteca, la stazione ferroviaria e così via. Non sono forse contesti in cui poter apprendere? Non offrono opportunità riferibili, nel caso della scuola, alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo? E per i servizi per l'infanzia, non sono luoghi in cui cogliere opportunità educative? Per la famiglia, non sono corridoi che portano i bambini nel nostro mondo? Per tutti, se mettiamo a disposizione dei bambini e delle bambine l'idea che ogni luogo sia uno spazio in cui apprendere, magari utilizzando sguardi adeguati e diversi in momenti diversi, non diamo loro la possibilità di interpretare il mondo come un luogo educante? E non è che osservando i loro sguardi saremo più capaci di consentirgli di apprendere ciò che li interessa, di appassionarli all'apprendere, anziché imporgli apprendimenti che potrebbero allontanarli dal piacere dell'apprendere?
Dico, forse, banalità, ma penso anche che per molti adulti cogliere questa prima opportunità potrebbe non essere facile. Questo perché per molti di noi significa affrontare una rivoluzione e uscire da schemi comodi propri dell'insegnamento e delle dinamiche di sostegno ai percorsi di apprendimento, perché a guidare potrebbero essere le domande, talora non espresse a parole, dei bambini e non le nostre (o quelle suggerite dai libri), perché molto spesso dovremmo rispondere "non lo so" e rimandare la risposta ad un altro momento, successivo allo studio che ci servirà, perché potremmo dover trovare modo di rispondere a domande ad oggi ritenute "inadeguate all'età" dei bambini e persino al nostro ruolo. La rivoluzione potrebbe consistere tutta nel dover rispondere alla domanda "perché è verde?" formulata da un cinquenne appena sceso dallo scivolo che guarda un quadrifoglio o una pianta di euforbia cresciuta in una fessura della pavimentazione. Di sicuro è più comodo mettere avanti le nostre domande adulte e lasciare che arrivino la terza o la quarta della scuola primaria per far sorgere quella domanda nei bambini, ma ha senso tutto questo? Ha senso chiudere gli apprendimenti in una stanza e in gabbie temporali? Davvero non esistono parole per rispondere a quel bambino nel chilometro zero educativo? Davvero vale la pena di escluderlo dalle sue opportunità educative? Davvero vale la pena bloccare le nostre capacità di apprendimento per cristallizzarle nella pagina di un libro e in un certo giorno della vita condivisa con i più giovani che imparano con noi? E non sarebbe un modo per apprendere ad apprendere sostare al metro 412 del nostro primo chilometro, cogliere la domanda, connettersi a internet con uno smartphone e cercare insieme la risposta, magari facendosi interpreti per i nostri giovani interlocutori? Ecco che, forse, la prima opportunità ci presenta la seconda: nel chilometro zero educativo c'è la ricchezza per imparare modi nuovi di insegnare e di imparare.
Ancora, prendendo in prestito una prima idea a Laura Malavasi (1), nel chilometro zero educativo ci sono solo molti degli argomenti oggetto formale dei nostri percorsi di apprendimento, per esempio scolastico, c'è la possibilità dell'esplorazione spontanea mossa dagli interessi e dagli stili di osservazione e apprendimento di ognuno. Così l'euforbia citata poco sopra potrebbe incuriosire Marco per il colore, Monica per il modo di flettersi nel vento e Chiara perché quando di rompe ne esce un liquido biancastro. E di fronte a un ponte potrebbero agire l'architetto che c'è in Giulia, il fisico che cresce in Kevin, l'artista inconsapevole che vive in Marta e, complice il cielo di una certa giornata, la poetessa che spinge dall'interno di Giada. E tutti, ancora una volta, troverebbero a un passo da sé i luoghi dell'apprendere. Non solo: il chilometro zero educativo è popolato da persone straordinarie nascoste nell'ordinario. L'incontro con persone capaci di esser testimoni del luogo e del tempo potrebbe trasformare un territorio a volte considerato banale in un museo vivente e popolato, dare ai bambini e ai ragazzi l'idea della fluidità del paesaggio, dello stratificarsi delle azioni umane, della bellezza di andare oltre, ma non in luoghi raggiungibili una volta nella vita, per scoprire il piacere della scoperta. In questo modo gli spazi di vita quotidiana potrebbero assumere una multifunzionalità che li rende spazi di svago, lavoro, apprendimento e tutto ciò che vogliamo senza ghettizzare i diversi momenti della vita. Perché un parco dovrebbe essere adatto solo al gioco? E perché una stalla o una fabbrica solo al lavoro? E, ancora, perché il tempo per queste attività dovrebbe essere una gabbia? Perché nel parco in cui al mattino si va prevalentemente per imparare, nel pomeriggio non dovrebbe sorgere la domanda che rilancia gli apprendimenti la mattina seguente? Perché la domanda che nasce con i genitori o con gli amici non dovrebbe trovare spazio nel momento scolastico?
Gli spazi del chilometro zero educativo, senza che diventino ghettizzanti in quanto unici spazi di apprendimento, potrebbero offrire l'ulteriore opportunità di essere spazi condivisi. Certo non mancherà la gita nella città d'arte o nell'area protetta e altrettanto non si eviterà di valorizzare la domanda nata durante il viaggio con la famiglia, ma il luogo in cui viviamo è anche il luogo più facile da condividere. Anche quello in cui conoscere le persone nella propria interezza, facendo sì che l'esperta incontrata durante la visita al panificio possa essere, nella mente dei bambini, anche una mamma o un'appassionata di corsa.
Disturbo ancora Laura Malavasi (1) quando dice che "l'educazione locale accresce negli studenti il senso di responsabilità, la coscienza ambientale e l'attaccamento al territorio". E nel farlo penso a certi miei percorsi di apprendimento che sono rimasti distanti dai luoghi in cui vivo per troppi decenni. Penso alla Seconda Guerra Mondiale rimasta distante quando la Rivoluzione Francese o la scoperta delle Americhe, nonostante sia stata combattuta dove vivo. Penso alla mia passione per l'ambiente e allo studio dell'inquinamento dei fiumi senza conoscere quello che scorre a breve distanza da casa mia, allo studio delle fortificazioni medievali fatto senza visitare gli incastellamenti dei dintorni della mia abitazione. Con questo ricordo un modello educativo e didattico, quello in cui sono cresciuto, che rischia di porci in una situazione di equidistanza di argomenti a prossimità differenziata: le architetture romaniche della mia città rischiano di collocarsi nella stessa dimensione spaziale di quelle della cultura Inca.
Penso così che l'opportunità del chilometro zero educativo sia quella di restituire una dimensione spaziale al pianeta e una scala temporale alle possibilità di esplorazione: il mio paese/quartiere da giovanissimo, la valle o la cima montana che vedo da casa da adolescente, un continente lontano da adulto fortunato. Intanto, il bosco che si trova a pochi chilometri da me, il brandello di palude dietro alla zona industriale e la foresta pluviale diventano tutti luoghi da conoscere e preservare, forse da difendere o, semplicemente, da valorizzare nei ruoli che ricoprirò nella società man mano che crescerò.
Cogliere le opportunità del chilometro zero educativo è anche l'occasione per coinvolgere professionalità diverse da quelle canoniche, rivolgersi a educatori ambientali, studiosi del territorio, guide, imprenditori e inserirli nella rete dei partner del servizio educativo o della scuola. E' anche studiare modi per retribuire le loro prestazioni, per dar valore con gli strumenti della nostra società al loro impegno. E' rivoluzionare il paradigma dei luoghi, dei tempi e dei soggetti facilitatori degli apprendimenti, è dare un ruolo sociale a spazi e persone del nostro quotidiano. E per i genitori è l'occasione di mettersi in gioco e di ragionare anche sul valore dell'educazione dei propri figli, sull'esercizio pieno di un loro diritto, sul riconoscere, anche economicamente, un valore a chi nel chilometro zero può aiutarci nell'educare. Ma in quello spazio c'è anche l'opportunità di realizzare dei risparmi che derivano dalla fruibilità gratuita di alcune cose che ospita. Non ci sarà da comprare gli attrezzi per l'educazione motoria che già ci sono al parco o l'attrezzatura per l'esperimento di scienze che utilizziamo nel laboratorio di analisi di zona. Non ci saranno i costi di viaggio che spesso amputano le possibilità di apprendimento nella scuola. Nel frattempo, sarà più probabile che i bambini e le bambine crescendo acquisiscano un senso del valore delle cose che arricchiscono gli spazi in cui vivono e, di riflesso, una minor tendenza a vandalizzarle in un pomeriggio di noia adolescenziale.
Muoversi nel territorio che ci circonda, se non semplicemente nel nostro giardino o nel parco a noi immediatamente vicini, offre il vantaggio di una quotidianità dell'osservazione, condizione che ci fa letteralmente viaggiare nel tempo. Non è questo un modo straordinario per dare appigli alla percezione del tempo che scorre nei bimbi e nelle bimbe che crescono e per consolidare la conoscenza dei ritmi della natura scanditi dalle stagioni? Se è così, all'adulto può spettare il compito di puntare l'attenzione su alcuni elementi del paesaggio che sottolineano il fluire del tempo e la ciclicità dei fenomeni della natura. Porre l'attenzione sulle piante può dare il vantaggio di ritrovarle a distanza di giorni, settimane, mesi, anni. Se ne può seguire il cambiamento nelle stagioni ma anche, come nel caso degli alberi, l'accrescimento negli anni. Questo nostro uscire nelle stagioni che cambiano richiederà anche di mutare il nostro abbigliamento e di mostrare ai bambini che è in relazione ai fatti della natura che esso ha bisogno di essere adeguato e non per altri fenomeni legati alla nostra società. Coprirsi di più o di meno, proteggersi dal freddo o dal caldo, dalla pioggia o dal sole non è un qualcosa che segue i calendari delle mode, ma l'andamento delle stagioni, anche con le loro anomalie. Cosa è questo se non un apprendimento in cui le nostre percezioni, i movimenti del pianeta, i cicli biologici delle piante e la nostra cultura si intrecciano in una interdisciplinarietà del reale?
Chilometro zero educativo - alcune pratiche possibili presentate per immagini
L'agire educativo è un processo che deve rimanere nelle mani di chi padroneggia la pedagogia, al di là delle riflessioni di chi, come me, ha un percorso formativo in avvicinamento a quel mondo, ma non vi è cresciuto. Le riflessioni fatte fin qui, quindi, rimangono, ai miei occhi, pensieri da prendere in considerazione, niente di più. Se, però, avessero una qualche validità, può avere un senso chiedersi quali siano le pratiche che possono sostenere gli apprendimenti nel chilometro zero educativo. Anche per quest aspetto, come per le opportunità, ringrazio fin d'ora chi vorrà fornirmi contributi e suggerimenti scrivendomi a info@emiliobertoncini.com. Intanto, provo ad elencarle attraverso alcune immagini evocative.
Semplicemente uscire
Visitare
Raccogliere
Fotografare, disegnare, rappresentare
Coltivare
Piantare o seminare alberi
Giocare
Esplorare
Camminare
Praticare sport
Incontrare
Leggere
Mangiare
Osservare
Curiosare
Prendersi cura dei luoghi del chilometro zero educativo
e molto altro...
[grazie per essere arrivat* fin qui]
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