Questo post è tratto da una più ampia pubblicazione denominata Orti e giardini nelle scuole e nei servizi educativi frutto di un incarico professionale solidale col quale l’autore Emilio Bertoncini ha potuto affrontare le difficoltà economiche scaturite dalle restrizioni all’esercizio della propria attività dovute all’emergenza Covid-19. Per saperne di più: www.ortinellescuole.it
Quand’è che siamo immersi nella natura? Sì, in quale contesto abbiamo la sensazione di “stare nella natura”? In altri termini, cosa è la natura? Come accade per molti altri temi, tendiamo a dare una risposta senza aver chiara la definizione o, addirittura, senza che sia possibile darne una univoca e stabile nel tempo. Probabilmente, la stessa domanda posta ai miei figli e ai miei nonni avrebbe risposte molto diverse perché l’idea di natura e la stessa considerazione che se ne può avere sarebbero molto diverse nei due casi.
Molto spesso, però, la domanda ci evoca spazi verdi, la campagna, le foreste, giusto per rimanere nelle situazioni con cui più frequentemente ci confrontiamo. Credo che sia piuttosto remota una risposta come “mi sento in natura nel bel mezzo di un’area industriale abbandonata”. Tranne chi ha la fortuna di frequentare il mare aperto, i ghiacci polari o il deserto, spesso identifichiamo la natura con il colore verde e su questo tornerò. Ora però sento il bisogno di esternare una mia grande difficoltà: la mia laurea in scienze agrarie e il mio essere guida ambientale determinano uno strano sguardo su ciò che la maggior parte delle persone identificano come spazi naturali. Per me le campagne, le aree forestali e pure quelle selvagge di gran parte dei continenti non hanno molto di naturale. Riconosco, certo, che alla base di tutto ci sono alcuni assetti riconducibili a fatti naturali, cioè estranei alle intenzioni umane, come la natura geologica di un territorio, ma mi è generalmente impossibile non notare l’azione dell’uomo. Provo a spiegarmi meglio con alcuni esempi.
Quando mi trovo nelle splendide campagne del Chianti, una delle aree più famose della Toscana, regione in cui abito, vedo un paesaggio deciso dagli umani. Il vigneto e l’oliveto sono impianti produttivi introdotti per mano dell’uomo. Il bosco è lontano parente di una foresta originaria, ma è rimasto nelle aree in cui coltivare sarebbe stato più difficile e le sue caratteristiche dipendono grandemente dagli interventi umani e dalle tecniche di coltivazione attuali o passate. Lo stesso eventuale abbandono della sua gestione è frutto di una scelta dovuta ai cambiamenti dell’economia globale. Del resto, i vigneti esistono perché gran parte degli umani dispersi sul pianeta che bevono alcolici apprezzano proprio i vini di queste zone. Senza i bevitori del vino, i vigneti del chianti sparirebbero. Come dice Wendell Berry (Berry, 2009-2015), mangiare è un atto agricolo (io credo che sia addirittura un atto politico) e da esso dipende grandemente il paesaggio di molte regioni del mondo.
Se provo a spostarmi in Garfagnana, porzione montana della provincia di Lucca, mentre cammino lungo “I sentieri del Moro”, che io stesso ho contribuito a far nascere, pur trovandomi immerso nel verde e nella foresta, non riesco a non percepire l’impatto dell’uomo. I castagni tra cui mi aggiro sono arrivati lì più di mille anni fa per scelta umana e lì sono stati coltivati (e in parte lo sono ancora) per rispondere ai fabbisogni alimentari della popolazione. I boschi in cui stanno evolvendo dopo l’abbandono sono frutto di una scelta ben precisa dettata da qualche malattia vera e propria, come il mal dell’inchiostro e il cancro del castagno, e di uno stravolgimento dell’economia globale, quello in cui la mia famiglia è passata da un’agricoltura di sussistenza all’emigrazione in altri territori per abbandonare del tutto il lavoro agricolo. Questo quando non sono arrivate pinete e abetine, spesso fuori posto, frutto di rimboschimenti. In zona ci sono alcune cerrete che sembrano inspiegabili. Sì, boschi di querce, in particolare cerro, rimasti laddove si sarebbero potuti piantare castagni per produrre la farina di neccio (nome locale con cui è indicata la farina di castagne - oggi è una DOP – denominazione di origine protetta). L’inspiegabilità è solo apparente: si trattava di boschi destinati a produrre le ghiande per l’alimentazione del maiale, una delle fonti di proteine e grassi animali più utilizzate fino a qualche decennio fa. Quei boschi di querce, la cosa più vicina al cerreto-carpineto diffusamente indicato per l’area nella mappe della vegetazione forestale potenziale, non sono lì in quanto semplice e normale componente naturale, ma per una precisa esigenza e scelta dell’uomo. Lo stesso accade quando vado in gita in Liguria e riconosco i paesaggi terrazzati delle Cinque Terre nati per coltivare la vite e produrre il vino, quando cammino per le sterminate distese di cereali della Puglia o della Basilicata, quando mi muovo sulle dolci colline umbre e marchigiane, quando osservo la laguna vagando per le isole di Venezia o quando osservo le terribili immagini delle foreste venete e trentine distrutte dalla tempesta Vaia: vedo di continuo l’azione dell’uomo e non riesco a sentirmi “in natura”, per quanto stia osservando un’azione competente e, talora, sapiente dei miei consimili. Arrivo, addirittura, al paradosso delle aree protette: laddove cerchiamo di rispettare e tutelare la natura, essa è più libera di essere se stessa per nostra scelta! Qualcuno mi dice, però, che in certe aree montane e remote l’azione dell’uomo non c’è o è modestissima, quindi lì c’è la natura. So di essere un po’ pignolo, ma trovare un territorio senza l’azione intenzionale dell’uomo è assai difficile e, quando sembra essere assente, è solo perché dei limiti oggettivi non ci hanno permesso di andare oltre. Se su certi pendii alpini ci sono le foreste, nelle quali si riconoscono forme d’uso e scelte selvicolturali, non è perché la natura è rimasta libera dall’uomo, ma perché la massima trasformazione tecnicamente ed economicamente possibile è stata, fino ad ora, quella. Le metropoli non nascono in montagna solo perché è più semplice ed economico costruirle altrove!
Prima di andare avanti nel ragionamento, intendo soffermarmi su un fatto che riguarda l’accessibilità della natura utilizzabile in chiave educativa. L’idea di natura comunemente intesa, per chi si occupa di educazione ha un terribile difetto: è distante, spesso irraggiungibile o raggiungibile solo in circostanze speciali, come le uscite didattiche che, in molti casi, si sono fatte sempre più rare e costose. Stando così le cose, è assai difficile che possa entrare a far parte del setting educativo. Abbiamo, quindi bisogno, di una natura più vicina, una natura di prossimità con cui poterci confrontare nel quotidiano in modo concreto e reale (Ciabotti, in Modello Agrinido di Qualità). L’idea comune di natura, però, sembra indicare la necessità per le scuole e i servizi educativi di spostarsi lontano dalla loro collocazione più comoda, cioè nei pressi di borghi e città, spesso semplicemente nel quartiere.
È possibile cambiare il nostro sguardo sulla natura per avvicinarla a noi? Provo a farlo con un esempio. Hai mai visto una pianta che cresce dove noi umani non la vorremmo? Un’erbaccia che cresce sul marciapiedi o in mezzo al cortile, un fico nato sulla facciata o sul tetto di un edificio, quell’enorme ailanto che si affaccia dai ruderi del capannone? Se fai mente locale ti verranno in mente piccole “foreste” erbacee sullo svincolo autostradale, capperi che crescono sulla facciata delle chiese e vecchi opifici invasi da tentativi di bosco. Forse, ricorderai anche qualche servizio giornalistico che durante il lockdown dovuto all’emergenza Covid-19 ci raccontava dell’erba che tornava a crescere nelle piazze delle città, come nella bellissima Piazza del Campo di Siena. Cos’è quella, se non la natura, almeno nella sua accezione biologica, che cerca riappropriarsi dei propri spazi? È per questo che spesso dico che una piantina che cresce dove non l’abbiamo mai pensata, dove a noi sembra impossibile che possa sopravvivere, dove non vorremmo che crescesse, è la massima espressione della natura. Bastano un seme o una spora e il manifestarsi delle condizioni idonee a germinare, eventualmente anche senza la prospettiva di accrescimento futuro, e la vita prova a partire, a portare la natura anche dove noi l’abbiamo spazzata via. La vita, la natura, fanno con quel che c’è, colgono le possibilità che si presentano. In tutto questo non c’è una splendida metafora per chi fa educazione? Come possiamo educare? Nei modi che ci sono possibili, non in quelli che consideriamo ottimali, ma non abbiamo a disposizione. Si educa cogliendo le possibilità che si presentano. Aggiungerei anche lavorando affinché le possibilità aumentino sempre di più e non escludo che la natura già lavori in questa direzione.
A questo punto del ragionamento ho bisogno dell’aiuto di due grandi pittori: Vincent Van Gogh e Paul Gauguin. È in un loro dialogo nel film “Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità” che una sera di qualche anno fa, in un cinema milanese, è arrivata la soluzione al mio dilemma, alla discrasia tra il mio modo di vedere la natura e quello che alberga nel senso comune e, spesso, nel mondo educativo. Ecco le parole che Paul rivolge all’amico Vincent:
Senza i nostri occhi non esiste natura.
E nessuno vede il mondo allo stesso modo.
Se le cose stanno così, la natura non esiste, è solo una nostra definizione e “la natura” nasce nel momento in cui il nostro sguardo si muove con quella definizione. Il punto è che ognuno di noi ha una propria idea, una propria definizione di natura e, allora, essa può essere tante cose diverse. Dal momento che nel mondo educativo e didattico lavoriamo con bambini e ragazzi, c’è da chiedersi cosa sia secondo loro, come si possano mettere insieme definizioni diverse e cosa vedano i più piccoli, ancora non contaminati dalla distinzione tra “naturale” e “artificiale” che viene introdotta durante la scuola primaria.
A me piace andare oltre e immaginare cosa potrebbe accadere mettendo la definizione di artificiale nella testa di un’altra specie. Provo con il castoro e mi immedesimo in cucciolo orgoglioso del lavoro di mamma e papà che costruiscono vere e proprie dighe. Forte della definizione di “artificiale” centrata sulla mia nuova specie di appartenenza, quelle dighe sono artificiali. So però che ci sono altri animali capaci di costruire dighe sul pianeta: gli umani. Li ammiro molto, anche perché le loro dighe sono altissime. E del tutto evidente, però, che le loro dighe, essendo quelle costruite da animali, sono naturali!
Forse devo tornare con i piedi per terra, anzi nelle zampe degli umani, e provare a procedere con più attenzione. È per questo motivo che voglio trascrivere alcuni brani del libro “Una seconda natura” di Michael Pollan.
Ecco il primo.
(…) la rosa non solo indossa i colori del nostro spirito, ma li contiene. Le rose sono state così a lungo coltivate, incrociate e reincrociate affinché rispettassero i nostri ideali, che ormai è impossibile separare la loro natura dalla nostra cultura.
Secondo il ragionamento di Pollan, la rosa, una pianta che ci dona i fiori, per noi massima espressione di ciò che è natura, è inscindibile dalla nostra cultura e, probabilmente, non abbiamo esitazione nel dire che ciò che è cultura è artificiale.
Il secondo.
L’abitudine a contrapporre grossolanamente natura e cultura non ha fatto che crearci problemi, problemi dei quali non ci libereremo finché non avremo sviluppato una percezione più complessa ed elastica della nostra collocazione nella natura.
Devo confessare che il ragionamento di Pollan si fa intrigante: c’è bisogno di rivedere la nostra collocazione nella natura, non al di fuori o in contrapposizione con la natura!
Eccoci al terzo brano.
E, infine, stiamo parlando di natura o di cultura quando raccontiamo di una rosa (natura) che è stata selezionata (cultura) in modo che i suoi fiori (natura) inducano gli uomini ad immaginare (cultura) il sesso delle donne (natura)? Forse è di questo genere di confusione che avremmo più bisogno.
La confusione tra ciò che è cultura, quindi artificio, e ciò che è natura, semplificata e amplificata nel rapporto tra umani e rosa, tra la specie più egocentrica che io conosca e la pianta che più fortemente si è fatta plasmare per raggiungere, come molti altri vegetali, lo scopo di portare il proprio DNA ovunque sul pianeta (Mancuso, 2017), sembra segnalarci che, almeno in qualche caso, è proprio impossibile distinguere le due cose, se non sulla base di definizioni di comodo valide di volta in volta.
Ancora un brano, il quarto. Breve.
Il giardino indica che forse esiste un luogo dove noi e la natura possiamo incontrarci a metà strada.
E il quinto, ancora riferito al giardino.
(…) un luogo con una lunga esperienza su interrogativi che hanno a che fare con l’uomo nella natura.
Pollan ci sta forse suggerendo che abbiamo bisogno di contesti, e il giardino potrebbe essere uno di quelli, per ricollocarci nella natura? È su quello che dobbiamo lavorare? È lì che dobbiamo interrogarci per risolvere la questione di cosa è natura e cosa non è natura?
Forse, Pollan dà un ultimo suggerimento proprio sul finire del libro.
Forse anche la natura incontaminata ha bisogno di una cornice, del contrasto con l’artificio umano.
Se le cose stanno così, la domanda chiave con cui ho aperto questo paragrafo potrebbe essere capace di dirci che, ritrovando il nostro ruolo nella natura, anche l’artificio che siamo in grado di produrre ci consente di capire meglio la natura in cui viviamo.
È questa una risposta? No, non lo è. Ne è mia intenzione dare una risposta. Quello che, al termine di questa riflessione, vorrei potesse accadere in ognuno di noi, soprattutto in coloro che si occupano di educazione, è il tentativo di dare una propria risposta, possibilmente divergendo rispetto all’idea di natura che ci hanno consegnato la scuola e la nostra società, per le quali natura è tutto ciò che non è artificiale, come se la distinzione fosse semplice. Un’idea di natura, quindi, per me è quella che scaturirà da ogni ulteriore riflessione capace di portarci oltre nel ragionamento.
Prima di chiudere il paragrafo, però, voglio aggiungere un pensiero e, per farlo, torno a mio figlio Diego, il cavernicolo digitale. Che rapporto c’è tra la sua natura e la natura? Che idea ha o può farsi della natura? E come posso influire su quella sua idea, sul rapporto tra l’ecosistema digitale in cui si trova a proprio agio e l’ecosistema fisico in cui vive? Ovviamente, non ho le risposte a tutte queste domande, ma c’è un aspetto che, in qualche modo, mi consente di spostare il ragionamento da me e mio figlio a chi si occupa di educazione, soprattutto di educazione all’aperto, e i bambini: perché far vivere ai cuccioli degli umani del XXI secolo esperienze in natura e di natura, magari quella addomesticata e di prossimità del giardino della scuola, del servizio educativo o del parco cittadino? E quali rischi si corrono quando ci si sente adatti, quando si viene da esperienze di vita in cui stare all’aperto, a contatto con la natura, la natura come la intendiamo noi, è la normalità? Tra me e Diego questa cosa è diventata caratterizzante la nostra relazione educativa e non posso negare che ho dovuto lottare un po’ con me stesso per evitare di pensare che lo stare all’aperto fosse l’esperienza migliore per lui. Mi è sembrato, anzi, impossibile che non fosse di suo gradimento, che non lo entusiasmasse. Poi ho capito che non stavo rispettando il suo diritto di essere se stesso, diverso da me. È in quel momento che ho potuto cambiare prospettiva: proporgli esperienze in natura e di natura è dargli l’opportunità di conoscerle, di sperimentare altro rispetto a ciò in cui sa immergersi da solo. È un’occasione, forse unica, di consentirgli di scegliere, di non vedere un’unica possibilità. E non sarà scegliere tra ecosistema fisico e virtuale, tra tecnologia e natura (come se fossero in antitesi), ma quanto queste e altre possibilità conteranno nella sua vita. Se quanto accade tra me e lui può accadere tra chi si occupa di educazione all’aperto e i bambini, forse dobbiamo davvero interrogarci sul motivo intimo e profondo per cui lo facciamo, su come la nostra natura e la nostra idea di natura possano mettersi al servizio dei bambini, più che rispondere a bisogni dell’educatrice o dell’educatore che c’è in noi.
Se vuoi, alcune riflessioni contenute in questo paragrafo puoi ascoltarle a questo indirizzo: https://youtu.be/aO1pd3ilRds
Bibliografia
AA.VV. - Regione Marche, Fondazione Montessori, Modello Agrinido di Qualità
https://www.regione.marche.it/Portals/0/Agricoltura/AgricolturaSociale/agrinido/Agrinido.pdf
Berry Wendell (2009), Mangiare è un atto agricolo, Lindau Editore, Torino 2015
Mancuso Stefano, Plant revolution, Giunti Editore, Milano 2017
Pollan Michael, Una seconda Natura, Adelphi edizioni, Milano 2016
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