Oltre la soglia, nell’ecotono educativo

"Emilio, la gente non ama leggere testi lunghi nel web". Di solito mi dicono questo e di solito rispondo che chi non ama leggere non legge. Non solo: chi non è interessato non legge. Quindi, ti dico subito che quanto segue è un capitolo di una pubblicazione in divenire desiderosa di diventare un libro. Quindi, è un testo lungo. Per di più senza immagini. Se vuoi scoprire qualcosa, procedi oltre con la lettura. Supera questa soglia. In caso contrario, chiudi subito questa pagina: io non ho niente da dirti che non sia ciò che vuoi scoprire dei miei lunghi e articolati pensieri.

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“L’educazione è un processo che avviene in ogni momento e in ogni luogo”. Suona più o meno così una frase che ho sentito più volte da Antonio Di Pietro, un pedagogista ludico con cui ho avuto la fortuna di lavorare.

Queste parole mi inducono a indagare sulla necessità di distinguere, spesso contrapponendole, tra educazione all’aperto e in spazi chiusi. Quest’ultima, stranamente, non etichettata con l’equivalente anglicismo di indoor education. In fondo, a discriminare tra le due c’è un elemento architettonico, la soglia, che diventa limite e ponte tra due approcci educativi che possiamo, ed è una nostra scelta, considerare complementari o alternativi.

Cosa rappresenta nell’immaginario collettivo quell’elemento architettonico? Provo a rispondere pensando a un genitore che accompagna al nido o a scuola un figlio. È assai probabile che entrare al nido o a scuola significhi varcare la soglia che permette di avere un soffitto sopra la testa. Si è dentro, cioè al nido o a scuola, quando è possibile chiudere dietro di sé una porta. Ciò, nonostante questi due luoghi dell’educare possano avere un cortile, un giardino e un viale che li separa alla strada, dalla piazza o dal parcheggio. Sì, il concetto consolidato è che si impara e si è in custodia di chi insegna quando si è dentro, con un serramento chiuso alle spalle. Non è mia intenzione disquisire sul perché si sia arrivati a tanto, ma prendo atto di quanto accade e provo a ragionare su quella soglia che sottolinea la transizione o la separazione tra fuori e dentro.

Adulti e bambini oltre la soglia

Che si stia da una parte o dall’altra della soglia, apparentemente siamo sempre gli stessi. In realtà, che la nostra zona di comfort sia di qui o di là, indifferentemente sui due lati o, addirittura, sulla soglia, dice molto di noi, della nostra formazione, del nostro agire educativo o di quanto abbiamo bisogno di lavorare in una direzione o nell’altra. Personalmente sento più il bisogno di lavorare in entrata, sebbene nel tempo mi sia avventurato e formato sulla possibile presenza indoor della mia figura professionale. Credo, però, che la generalità di coloro che operano in educazione e a scuola abbiano bisogno di lavorare nella direzione opposta, cercando modi per varcare la soglia diretti verso l’esterno o modi nuovi per varcarla. Per esempio, in molte scuole è normale andare fuori per momenti di ricreazione, ma si tende a non usare gli spazi esterni per fare attività didattica. Il punto, in quei casi, non è quanto ci si sente in comfort fuori, ma quanto si riesce a provare quella sensazione facendo scuola, e non ricreazione, fuori. In discussione, quindi, non c’è soltanto lo spazio in cui collocare il nostro agire didattico o educativo, dentro o fuori, ma ci siamo noi e il nostro stesso agire. È questo il motivo per cui spesso mi interrogo con i team educativi con cui collaboro o svolgo attività formative circa la scelta di introdurre l’educazione all’aperto e la sua condivisione all’interno del gruppo, ragionevolmente composto da persone con attitudini diverse da un lato e dall’altro della soglia, quindi sull’opportunità che sia necessario sfruttare le competenze di ognuno in modo diversificato. Tale riflessione è, a mio modo di vedere, fondamentale e capace di condurre a scelte molto diverse, inclusa quella di non fare educazione all’aperto se non è nelle nostre corde o se il team non riesce a valorizzare le attitudini dei vari membri in tale direzione. Ciò non vuole significare che c’è spazio per una deliberata rinuncia alle opportunità che si presentano oltre la soglia, ma calare il progetto educativo sulle effettive competenze di chi lo attuerà. Viceversa, quando se ne ravvisi la necessità, è importantissimo svolgere attività di formazione atte a sostenere un’adeguata complementarietà tra l’azione educativa svolta fuori e dentro.

Un altro degli aspetti su cui riflettere in fase progettuale e al quale fare molta attenzione anche in fase attuativa è come i bambini si sentano da una parte e dall’altra della soglia. Questo è, a mio modo di vedere, addirittura prioritario rispetto ai vantaggi riconosciuti del varcarla diretti fuori, direzione a cui tende questa pubblicazione e su cui tornerò più avanti. Per quanto l’affermazione che segue non abbia validità generale, si può dire che nel nostro paese si affronta una sorta di paradosso generazionale per cui, se la generazione dei miei genitori doveva essere formata allo star dentro, quella dei miei figli si trova nella condizione opposta, cioè di dover essere formata allo star fuori e, soprattutto, allo star fuori in modi e forme non totalmente organizzate dagli adulti. Andare oltre la soglia, in una direzione e nell’altra, farlo con naturalezza e agendo una complementarietà di questi spazi in chiave educativa, costituisce una delle sfide moderne. L’obiettivo è quello di far familiarizzare i bambini con i diversi contesti e le loro funzioni nella nostra società. A quel “i bambini di oggi non sanno stare fuori” che spesso mi sento dire e che provo a tradurre in “i bambini non trovano nel fuori un’area di comfort”, possiamo cioè sostituire un più opportuno “dobbiamo aiutare i bambini a sentirsi in comfort da un lato e dall’altro della soglia”. Il rischio, altrimenti, è di confinarli in un mondo chiuso senza che abbiano avuto la possibilità di sperimentare l’esterno. Tutto questo senza dimenticarci che quei bambini saranno poi adulti e genitori incapaci di trasmettere ai figli una facilità di frequentazione dei due lati della soglia. Del resto, ogni volta che mi capita di offrire ai bambini la possibilità di varcare la soglia, risuonano in me le parole di Lola Ottolini in “Fuori” (Ottolini, 2015): “i bambini le soglie le cancellano e le attraversano con facilità”. Infatti, anche quei bambini che per abitudine sono meno avvezzi a passare da un lato all’altro della soglia e, soprattutto, di farlo andando fuori, trovano, se sostenuti e aiutati, una propria modalità di familiarizzazione con ciò che prima era estraneo alla loro esperienza. È in tale accompagnamento che agli adulti sono richieste competenze pedagogiche e una adeguatezza al ruolo, condizione che rafforza la necessità di una formazione in tale direzione e, soprattutto, di natura esperienziale.

Molte soglie, una sola azione

Molto spesso ci limitiamo a considerare la soglia che riteniamo più importante, quella tra dentro e fuori, non a caso messi in questo ordine. Non dobbiamo, però, trascurare che è una soglia anche quella che divide i vari locali di un edificio, sebbene sia talvolta sfumata fino a perdere la propria consistenza architettonica o ridotta ad una linea sottile. In quella propensione dal dentro al fuori che di solito ci caratterizza e ci porta a sottolineare quanto tempo ci serve per prepararci a uscire, ma non quanto ne serva per prepararci a rientrare, provo a suggerire che, anche quando non evidenziate da particolari architettonici, le soglie siano molte anche fuori.

Lo sono, per esempio, tutte le linee che separano superfici con diversa natura. Un’area pavimentata non ha le stesse caratteristiche del prato o del cortile inghiaiato e aree con pavimentazione diversa non si comportano allo stesso modo, per esempio, in occasione di una giornata di pioggia (o di sole!) o quando vi facciamo rotolare o scivolare un oggetto. Le linee di separazione sono soglie che dividono spazi capaci di offrire esperienze diverse. Quando arriva il sole, un prato rimane scivoloso e bagnato più a lungo di un marciapiedi. Lo stesso prato tende a drenare meglio l’acqua di un terreno compattato e impermeabile. Per questo nel secondo caso è più facile la formazione di una pozzanghera, ma questa non si formerà in una superficie pavimentata. Far rotolare una palla è più difficile e imprevedibile dove affiorano le radici di un albero che in un cortile asfaltato, così come una caduta ha esiti diversi nei due casi. Tutte situazioni diverse ai lati di soglie che spesso tendiamo a non prendere in considerazione.

Un’altra soglia importante, spesso esistente anche dal punto di vista architettonico, è quella che separa il fuori di pertinenza del nostro edificio (giardino, cortile, ecc.) dal resto del mondo. Il cancello è una soglia oltre la quale ci sono il borgo, la città o la campagna. E la fuori compaiono altri limiti, così possiamo cominciare a interpretare le soglie tra spazi di mondo che offrono opportunità diverse, come vedremo meglio nel prossimo capitolo.

Oltre a queste soglie solide, ce ne sono altre meno tangibili, ma altrettanto importanti e sono quelle temporali imposte da routine e orari quasi sempre rigidi e invariabili. Soglie che spesso dividono il possibile dall’impossibile generando questa seconda condizione. La fine dell’ora, lo scadere del tempo per un dato gruppo, il momento della mensa, arrivano spesso ad interrompere momenti di grande significato. Mi sovvengono certi bei racconti in giardino (le cosiddette restituzioni spontanee) interrotti da una voce che proclama un indesiderato “andiamo, è tardi!”. In altri casi, una rigida programmazione temporale li esclude proprio, spesso in nome di una sorta di “democrazia dell’apprendimento” (Bertoncini, 2015) che di democratico ha soprattutto la generalizzata perdita di opportunità. Il tutto mentre routine e orari rimangono invariati da ottobre a giugno, come se il mondo là fuori fosse sempre uguale, come se le 9.30 del mattino di gennaio e di giugno fossero equivalenti, anche solo in termini comfort ed esperienze realizzabili. Eppure anche questa soglia separa degli spazi, seppur concettuali: quello delle opportunità educative da quello della buona logistica.

Mentre scrivo mi chiedo perché stia continuando a dire che le soglie separano spazi. Se lo facessero, sarebbe impossibile andare da uno all’altro e per questo tipo di azione l’elemento architettonico più funzionale è il muro. In effetti, non è come ho detto fino ad ora: le soglie non separano, ma connettono spazi diversi e ci consentono, secondo regole che ci diamo e che possono tradursi in fatti architettonici (una porta, un cancello, ecc.), di passare da un ambiente all’altro. L’azione di una soglia è, quindi, quella di collegare, di mettere in comunicazione. Che lo faccia o meno dipende da noi e da altri tipi di soglie e limiti che possiamo metterci in condizione di attraversare mentre ci spostiamo tra spazi che offrono opportunità educative diverse.

Non solo soglie fisiche

Quali altre soglie collegano le esperienze educative che possiamo svolgere in ambienti diversi? Ovvero, quali limiti varchiamo superando la soglia in una direzione o nell’altra? Io ne vedo almeno tre, fortemente interconnessi: quelli culturali, quelli giuridici e quelli psicologici. Ammetto di aver cambiato l’ordine più volte, come per attribuire un’importanza diversa a ciascuno di loro e di non essere ancora soddisfatto.

Che vi siano soglie culturali è reso evidente dai numerosi movimenti di opinione e associazioni che negli ultimi hanno lavorato sul tema dell’outdoor education e dalla stessa attenzione che il mondo accademico ha posto su questo tema ideando anche percorsi formativi mirati1, ma anche dall’attenzione con cui i media trattano l’argomento o, semplicemente, dal diverso grado di stupore che genera la vista di studenti per le strade di borghi e città solitamente non destinazione del turismo scolastico. Ricordo ancora le persone che si affacciavano da case e negozi quando nel lontano 2013 le dieci classi della Scuola Primaria Pascoli di Pietrasanta (LU) attraversarono la cittadina, una dopo l’altra, per far nascere l’Orto del Giardino della Lumaca. Fu un vero e proprio evento. Eppure si trattava degli stessi bambini che nel pomeriggio avrebbero invaso le vie in cerca di una gelateria. Agli occhi delle persone, per quanto era consolidata l’idea che gli studenti dovessero stare dentro la scuola, sembrava in atto una vera e propria evasione.

Le resistenze o le pressioni dei genitori affinché a scuola o al nido si vada fuori sono un indicatore di una richiesta di attività all’aperto crescente, ma non sempre condivisa nella nostra società. Spesso l’appiglio sanitario diventa determinante con opposte fazioni di genitori, ma anche di insegnanti e educatrici, che sostengono tanto che ad andare fuori ci si possa ammalare di più, quanto l’esatto contrario.

Un altro segnale consiste nel fatto che, dopo decenni in cui il giardino della scuola è stato uno spazio trascurato o, al più, trattato alla stessa stregua di un comune parco pubblico, molte amministrazioni comunali e scuole stanno facendo importanti lavori di riprogettazione e miglioramento tesi ad aumentarne la funzione didattica. Tutto questo è, per chi come me crede nell’importanza di un’adeguata integrazione tra le pratiche educative svolte da un lato e dell’altro della soglia, incoraggiante. Credo, però, che finché avremo bisogno di distinguere l’outdoor education dalle altre modalità, ci sarà molta strada da percorrere.

È innegabile che ci siano delle soglie di natura giuridica che possono unire spazi educativi diversi, sia in senso assoluto (e contingente), sia in funzione di alcuni fattori culturali.

Una di queste è soglia che separa tutto ciò che è scuola dal resto del mondo e stabilisce un confine tra giurisdizioni e regole. Per esempio, il “Regolamento di Istituto” si applica all’interno della scuola e a chiunque vi acceda, ma non fuori da essa, salvo che per gli aspetti che regolamentano le uscite didattiche. Per queste è solitamente prevista una specifica autorizzazione dei genitori, mentre per andare nel giardino essa non è necessaria perché si è ancora a scuola. La presa in custodia degli studenti avviene al superamento di una soglia ben individuata, così come il passaggio della loro custodia a terzi. Lo stesso vale per i servizi educativi. In un paio di esperienze condotte in due nidi toscani ho vissuto la singolare situazione di dover attendere l’autorizzazione dei genitori per uscire in quello che tecnicamente era il giardino del nido, ma non risultava inserito nelle planimetrie degli spazi autorizzati. Mentre fisicamente non facevamo altro che superare il cancellino che metteva in comunicazione due settori dello stesso giardino, giuridicamente stavamo uscendo dal nido, come se fossimo andati nel parco cittadino più lontano.

È del tutto evidente che le responsabilità che scaturiscono dal quadro giuridico vigente all’interno della scuola sono completamente diverse rispetto a quelle vigenti altrove e che all’interno della scuola o del nido poco cambia a seconda che ci si trovi in un’aula o nel giardino. Eppure c’è un fattore culturale che interviene a modificare le cose. Poiché l’idea più consolidata è quella che l’educazione e l’insegnamento si facciano dentro, la possibilità di avere grane legali o assicurative in caso di infortunio all’interno e all’esterno è diversa. Nessuno chiederebbe mai conto del perché un bambino si trova in un’aula, ma del perché si trovasse fuori nelle specifiche condizioni che hanno generato l’infortunio sì. Cosa ci facevamo alle 10 del mattino sotto una lieve pioggerellina tra i cassoni dell’orto? Noi lo sappiamo bene che stavamo osservando le lumache, ma il dubbio che tra fare psicomotricità o algebra in un caldo interno e osservare gasteropodi in un freddo e umido esterno vi sia una differenza in termini di sicurezza ci assale e la nostra mente corre almeno alla giusta riga del PtOF, del progetto educativo o di un qualche documento ufficiale che possa farci da pezza d’appoggio per la difesa. Perché accade questo? L’orto o il giardino sono parte della scuola e un’attività didattica curricolare, magari condita dei sacri crismi del compito di realtà o della rigorosa applicazione pratica del metodo scientifico, sono fare scuola. Eppure molti di noi non ce la fanno a sentirsi “a posto”. Questo perché l’ambito culturale e quello giuridico dialogano di continuo, ma non sempre in accordo tra loro.

Probabilmente abbiamo già superato la terza soglia dell’elenco di apertura: quella psicologica. Quanto pesano il quadro giuridico e il contesto culturale nell’influenzare la nostra predisposizione a varcare le soglie che ci consentono di integrare le opportunità offerte dai vari ambienti di apprendimento? E questo peso non va oltre il necessario per creare una pressione psicologica che rende il nostro agire nei tempi formali dell’educazione e della scuola più incerto e timoroso? Io credo di sì, almeno a giudicare da come cambia il mio vissuto quando mi trovo all’interno del perimetro di una scuola con gli studenti o con i miei figli e i loro amici durante una scampagnata. Di solito, nel primo caso avverto la necessità di un insieme di valutazioni, azioni e precauzioni che vanno al di là di quanto sento normalmente necessario nella seconda circostanza. Non è una questione di responsabilità, anche perché so bene che, avendo qualche titolo in materia di accompagnamento, le responsabilità che derivano dall’affidamento a me di figli di terzi e, in qualche caso, anche di adulti2, diventa un gravame giuridico di non poco conto. Al pari di questa pressione, che induce ad un eccesso di cautele e ci rende più incerti, interagire con una comunità fortemente vocata al superamento delle soglie potrebbe produrre l’effetto esattamente opposto, cioè renderci fin tropo sicuri e condurci a sottovalutare qualche aspetto legato alla sicurezza. A me, per esempio, è successo di lavorare in una scuola in cui genitori e insegnanti condividevano l’accettazione di un livello di rischio assai superiore alla media. Potrei dire che la “ragionevolezza del rischio” in quel contesto era poco ragionevole per la sensibilità comune nella nostra società. Questo incoraggiava, indubbiamente, a cogliere il valore educativo di alcune situazioni. Tuttavia, non sono poche le circostanze in cui, come si suol dire, “è andata bene”, almeno al mio sguardo. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente le parole di un formatore di un corso sulla sicurezza seguito alla fine degli anni ‘90, un magistrato di cui non ricordo il nome, che diceva “ogni volta che vi sentite di poter dire che è andata bene, annotate un infortunio senza danno e analizzate le cose per capire che non basta sempre la fortuna”. Ecco, in quei casi siamo stati fortunati, ma anche un po’ sciocchi perché condividere un’irragionevolezza può condurci su un terreno altrettanto scivoloso, sia che l’uscita dalla ragionevolezza avvenga in una direzione o nell’altra. Per spiegarmi meglio, tra non cogliere un’opportunità educativa per evitare un rischio e correrne uno inaccettabile per fare un’esperienza educativa, a mio avviso, non c’è molta differenza. Lo spostarsi da una parte all’altra della soglia tra ragionevole e irragionevole è frutto di un fatto psicologico a sua volta influenzato dal quadro giuridico e culturale.

Ciò detto, sperando che il mio ragionamento abbia un’utilità, provo a chiedermi perché solitamente le tre soglie in questione vertano sulla sicurezza (e la responsabilità) e non sull’educare. Perché il nostro sguardo sembra saper mettere a fuoco solo da vicino (“Si faranno male i bambini?”) e non è capace di vedere lontano (“Cosa apprenderanno i bambini per la loro futura sicurezza?”)? Non ho una risposta, ma invito ognuno di noi a riflettere su questa domanda.

Le soglie come ecotono educativo

A questo punto della riflessione sento ancora più pressante l’invito a discernere tra soglie e muri, tra elementi che collegano e elementi che separano. Questo perché il rischio di sollevare le soglie per farne muri è alto. Derivando la nozione dalle mie conoscenze ecologiche, mi piace pensare che le tre soglie di cui ho appena parlato, le altre già citate e quelle che ho dimenticato, in quanto elemento di passaggio tra ambienti diversi, possano costituire un ecotono educativo.

Ecco la definizione di ecotono tratta da www.treccani.it: “in ecologia, zona di transizione (e di tensione) fra due o più comunità biologiche diverse (per es., foresta e prateria, fondo roccioso e fondo melmoso del mare, ecc.), in cui si trovano organismi propri delle comunità confinanti, ma anche altri, esclusivi della zona stessa”. Uno dei motivi per cui si parla molto di ecotoni è che costituiscono ambienti di eccezionale ricchezza biologica e, purtroppo, sottoposti a forte minaccia umana in molte parti del pianeta. Pensiamo, per esempio, a che fine hanno fatto gli ecotoni costieri delle nostre riviere più vocate al turismo.

La definizione di ecotono educativo potrebbe essere questa: zona di transizione (e di tensione) fra due o più ambienti fisici o pedagogici diversi (per es., dentro e fuori, prato e cortile, giardino e mensa, propensione e diffidenza, ecc.), in cui si possono cogliere opportunità proprie delle realtà confinanti, ma anche altre, esclusive della zona stessa. Credo sia piuttosto facile comprendere l’analogia con l’econotono biologico: anche le soglie, nel loro complesso, sono un ambiente di eccezionale ricchezza educativa, ma sono sottoposte a forte minaccia umana. Pensiamo, per esempio, a che fine può fare l’educazione quando le soglie diventano muri invalicabili.

Se l’ecologia ci suggerisce l’importanza e la necessità di ridurre le pressioni che portano ad alterare, semplificare e distruggere gli ambienti ecotonali, possiamo cogliere lo stesso suggerimento per l’ecotono educativo e cercare di valorizzarlo. Potrebbe, addirittura, diventare un nostro osservatorio privilegiato, trasformando la soglia nella comoda seduta o nell’intrepido trampolino da cui osservare ciò che sta da una parte e dall’altra per poi decidere in quale direzione muoversi per cogliere le migliori opportunità. Sarà un movimento che non conosce la nozione di senso unico ma, piuttosto, quella di osmosi, di graduale e utile passaggio da un ambiente all’altro, da un lato all’altro della soglia, senza trascurare l’importanza di abitarla.

Oltre la soglia, in cerca di natura con qualche appiglio pedagogico

Se di osmosi dovrà trattarsi, in molte realtà educative e scolastiche ad oggi sembra vigere o almeno prevalere un senso unico alternato che prevede di superare la soglia per entrare nell’edificio, svolgere l’attività educativa e didattica per lo più all’interno e, quindi, invertire il senso unico per uscire e tornare alla vita extrascolastica. È a fronte di tale situazione che in questo paragrafo andrò in cerca di appigli pedagogici per il superamento della soglia in cerca di natura, quindi in direzione del giardino e, come suggerirò nel prossimo capitolo, di quello che c’è oltre. Lo farò attraverso una riflessione guidata da una serie di citazioni di chi è pedagogista o figura importante del panorama educativo a me visibile. Mi si perdonerà se il mio sguardo non arriva sufficientemente lontano o se, qualche volta, attingerò da chi dice cose per me interessanti, anche se vive e lavora in altri mondi.

Inizierò, anzi, proprio da chi si occupa di ben altro, cioè con Giuseppe Barbera, docente di colture arboree all’Università di Palermo, che scrive quanto segue: “se osserva un albero con un maestro o un genitore attento, un bambino apprende storie di paesi lontani, viaggia con la fantasia, ritorna alle favole, applica nozioni di botanica, zoologia, ecologia anche tra gli spazi di un marciapiede di cemento” (Barbera, 2017). In fondo, attraversare le soglie del nostro ecotono educativo per andare fuori in cerca di natura può voler dire creare proprio queste condizioni: valorizzare ciò che abbiamo a disposizione, anche un marciapiede di cemento, per offrire ai bambini l’opportunità di apprendere e per sostenerli con grande attenzione in questo processo. Il potere evocativo e metaforico degli alberi (Pollan, 1991-2016) incoraggia in questa direzione, ma anche l’incontro con un filo d’erba o con una formica valgono la pena di provarci. Angela J. Hanscom ci ricorda che “nella natura i bambini imparano a correre dei rischi, a superare le paure, a farsi nuovi amici, a regolare le emozioni, a creare mondi immaginari” (Hanscom, 2017) e che il ruolo degli adulti che offrono tempo e spazio per attività quotidiane di gioco all’aria aperta è fondamentale.

Già, tempo e spazio, due realtà talora tiranne o, come tendo a pensare, trattate con tirannia da una società che spesso perde i riferimenti più importanti, come il valore del tempo che si dedica a ciò che si fa. Tutto deve essere veloce. Anzi, tutti dobbiamo imparare che veloce è più bello, più funzionale, più non si sa bene cosa. Stranamente, nella civiltà che si consacra alla velocità, uno degli indicatori del benessere è la durata della nostra vita. Avere molto tempo per vivere e fare le cose velocemente a me sembra un controsenso e, in accordo con le parole di Franco Lorenzoni, andare oltre la soglia può essere una buona occasione per evitare di imitare ciò che accade nella società e, almeno nel mondo educativo e scolastico, operare per contrasto trovandovi un luogo in cui, mentre tutti corrono, poter andare lenti. Del resto, procedere lentamente è un modo per aumentare le possibilità che arrivino tutti e per incontrare davvero qualcosa. Per questo “bisogna dare ai ragazzi il tempo di perdere tempo” (Lorenzoni, 2014) e, forse, pensare che “il tempo perso in realtà è un tempo biologicamente necessario” (Zavalloni, 2008). Il tempo offerto dagli adulti ai bambini oltre la soglia, anche quando agli occhi della società che corre veloce sembra perso, è infatti una delle condizioni che trasforma gli spazi educativi in contesti nei quali i bimbi possono farsi carico della propria educazione, apprendendo per propria iniziativa, condizione peraltro tipica del gioco libero, attività cui restituire valore anche quando si lavora con i più grandi, e che consente apprendimenti altrimenti impossibili (Gray, 2013).

Quali sono gli spazi utili per educare in e alla natura? Secondo Andrea Ceciliani (in Agostini-Farné, 2014), “l'educazione all'aperto non richiede spazi particolari, ma una predisposizione mentale da parte dell'adulto”. In tal senso, una delle cose da fare è evitare di subordinare il tentativo di educare oltre la soglia alle caratteristiche di ciò che vi si trova, cercando invece di valorizzare il ruolo di queste ultime. Non importa, cioè, se vi siano un prato o una pavimentazione, un albero o una pianta in vaso, una recinzione o una siepe, un parco o un bosco, ma come gli adulti si predispongono a sfruttare le opportunità offerte da questi elementi, senza trascurare piccole trasformazioni da operare nel tempo per migliorare gradualmente gli spazi, senza dover subire anche i limiti delle ristrettezze economiche. È così che ciò che sta ai due lati della grande soglia che divide il dentro dal fuori può creare la privilegiata condizione per cui “l'ambiente esterno è l'aula a cui attingere sul piano dei campi di esperienza”, mentre lo spazio interno può costituire l'ambiente in cui “si sedimentano e si elaborano le esperienze” (Agostini-Farné, 2014). Provo ad aggiungere un personalissimo “senza trascurare la possibilità che i ruoli possano invertirsi”. Come scrive Alessandro Bortolotti (in Agostini-Farné, 2014), l’ambiente esterno, se popolato da adulti attenti ai loro fabbisogni, diviene quello in cui il bambino “sperimenta la propria autonomia, che è libertà di agire non in senso assoluto, ma nelle condizioni che l'ambiente pone, nel rapporto concreto tra possibilità e limiti”. Mi viene da suggerire “in un rapporto concreto con la realtà” che metta al centro il bambino chiedendosi “non soltanto ciò che al bambino serve oggi, ma ciò che a quel bambino di oggi servirà un giorno” (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014). Questo può costituire una svolta epocale, soprattutto per quanto riguarda l’accettazione dei rischi che caratterizzano l’educare oltre la soglia. Rischi non aggiuntivi, come spesso si ritiene quando si è abituati a stare dentro, ma costitutivi, caratterizzanti e di valore formativo proprio in prospettiva futura. Scoprire da bambini che sul ghiaccio si scivola, che stare al sole può provocare disagio e malessere, che alcuni insetti sono pericolosi e altri no o che esistono piante velenose dentro le quali poter giocare e nascondersi, costruisce un patrimonio di conoscenze e competenze che ci rendono adolescenti e adulti capaci di vivere nel mondo, che non è un luogo sempre protetto e sicuro, senza farci schiacciare dalla paura.

Stare fuori, nella natura che c’è oltre la soglia, non necessariamente straordinaria, ma presente nel quotidiano, quindi capace di insediarsi intimamente in noi, consente anche quella necessaria immersione nell'ambiente che dà ai bambini “la possibilità di osservare, sperimentare e attribuire un senso al contesto in cui si trovano, quel senso che permetterà loro di decidere se e come prendersene cura” (Schenetti in Agostini-Farné, 2014). È, infatti, oltre la soglia, diretti all’esterno, che si può maturare, conoscendola per come ci viene offerta, una qualche forma di rispetto e convivenza pacifica con la natura, una percezione dell’ambiente naturale come propria casa. A ben pensarci, oltre la soglia è più facile scoprire che la realtà non è divisa in livelli, ma che “i livelli in cui la scomponiamo, gli oggetti in cui la dividiamo, sono modi in cui la natura correla in noi” e che “la separazione della realtà in livelli è relativa al nostro modo di interagire con essa” (Rovelli, 2020). Se, come suggeriscono Monica Guerra, Claudia Ottella e Sara Vincetti, “i bambini non pensano per discipline, ma si interrogano su un mondo intero e non frammentato” (Guerra, 2017), oltre la soglia troviamo l’opportunità di costruire modi nuovi in cui la natura correla in noi, cogliendo anche “la possibilità di confrontarci con il sistema complesso che sta alla base di ogni altra complessità con la quale abbiamo a che fare nel quotidiano” (Bertolino e Perazzone in Guerra, 2017). Ciò richiede “un approccio metodologico in cui il ruolo dell'adulto (…) non è più quello dell'insegnante che propone quesiti o dell'educatore che indica attività, ma diventa quello dell'adulto capace di stare ad ascoltare l'interesse e le domande spontanee dei bambini” (Guerra, Ottella, Vincetti in Guerra, 2017) garantendo quel livello di esplorazione del mondo che dona unicità e sorpresa alla nostra esperienza, “condizione di ben altro impatto formativo che far posto a dati accessori, estranei alle emozioni, e come tali destinati a dissolversi in breve senza lasciare in noi alcun segno” (Stefano Sturloni in Guerra, 2017). Tale approccio richiede di accogliere anche ciò che, a volte, agli adulti non piace, come l’apparente disinteresse dei bambini e dei ragazzi per ciò che viene proposto. In tal senso, mentre educhiamo in e alla natura dobbiamo tenere presente che noi umani, anche da bambini, “siamo orientati a cogliere quello che ci interessa comprendere, magari in un preciso momento, e a lasciarci sfuggire ciò verso cui non siamo indirizzati o per cui non siamo predisposti” (Bertolino e Perazzone in Guerra, 2017). Questo, nella natura che “si offre all'esplorazione sia sul livello micro che sul macro a seconda dello stile osservativo e del desiderio di relazione individuale

di ciascuno” (Malavasi, 2013) determina uno scenario talora scomposto e apparentemente disorganizzato del nostro star fuori educativo, molto disallineato da un’idea di controllo e ordine geometrico della distribuzione dei corpi che ereditiamo da un certo modo di fare scuola, secondo me un po’ violento e vicino a logiche di intruppamento quasi militari. Eppure, in un disarticolato gruppo di bambini che si muovono oltre la soglia, nella natura che c’è, si riconosce la radicale assenza di certezze, l’apertura al dubbio e la forza del pensiero scientifico, “pensiero della curiosità, della rivolta, del cambiamento”, nonché una moltitudine di sguardi e prospettive interne al mondo che si riflettono a vicenda (Rovelli, 2020). È probabilmente per questo che “nella vita outdoor le esperienze educative si possono ritenere accurate quando si costruiscono e si modellano con una certa artisticità e artigianalità a partire dall'imprevedibilità della relazione con i bambini” (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014), soggetti propensi ad esercitare il proprio diritto ad una prospettiva personale, e tra i bambini e l’ambiente, sempre in reciproco influenzamento, come accade quando una farfalla attrae un bimbo e questa vola via perché ne percepisce la presenza. Cogliere le opportunità educative offerte dalla natura significa, cioè, adattare continuamente il proprio agire in un instabile equilibrio tra ciò che abbiamo programmato e ciò che si presenta imprevedibilmente e si offre solo in quel momento. I livelli di imprevedibilità sono molteplici ed interagenti. Ci si può presentare una circostanza realmente straordinaria oppure qualcosa di prevedibile nella propria natura, ma non programmabile, né valorizzabile in un momento successivo (la farfalla, un arcobaleno) e la reazione dei bambini può essere la più variabile, da un incantato entusiasmo alla paura più estrema. È in quel momento, però, che dobbiamo decidere cosa fare e come farlo, che la nostra esperienza e le nostre capacità di agire come artisti e artigiani dell’educazione possono consentire di cogliere l’opportunità che si presenta, con l’ulteriore sfida di saper cogliere ciò che davvero aggiunge qualcosa in termini di apprendimenti, senza cadere nella trappola di lasciarsi distrarre da tutto e non lasciarsi attrarre da niente.

Ancora, ci è richiesto di cogliere, rispettare e condividere la capacità che ha il bambino di immergersi “nella natura come parte integrante delle attività, non come paesaggio, ma come autentica esperienza sensoriale” (Andrea Ceciliani in Agostini-Farné, 2014), immersione che protrae a lungo, talora in modo sorprendente e contrastante con le nostre routine temporali, coinvolgimento, impegno e concentrazione in attività spontanee senza che appaiano affaticamento, noia o nervosismo (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014). Non di rado, un adulto attento va in conflitto con se stesso nel tentativo di mettere insieme il mosaico di universi temporali che si genera nel gruppo dei bambini e i tempi che organizzazione e logistica della comunità educante (il nido, la scuola, ecc.) impongono in nome del buon funzionamento della macchina educativa. A me accade spesso quando i bambini mi donano il proprio spontaneo storytelling, la restituzione di saperi ed esperienze che si fa appagante condivisione, che stimola la passione dei piccoletti che si trovano davanti ai miei occhi, momento nel quale “l'esperienza del movimento, dell'entrare in relazione con gli elementi naturali, osservare, coltivare, raccogliere, costringe il bambino a trovare nuovi modi per esprimersi, nuove domande, nuove connessioni simboliche” (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014). È un momento in cui la sfida comunicativa li fa crescere nella relazione e nell’esercizio dell’importanza della condivisione dei linguaggi ed è un frangente che, a mio modo di vedere, condivise tutte le esigenze di natura logistica e senza che si debba mettere in crisi il sistema inducendo la narrazione in momenti non appropriati (ma chi lo decide quando sono davvero appropriati?), merita rispetto e vale ben la pena di realizzare un piccolo ritardo per sospingere un momento di grande importanza evolutiva per la persona che sta di fronte a noi.

Tempi, spazi, adulti. E loro, i bambini? Non posso certo avventurarmi su un terreno così difficile, non avendo alcuna competenza, ma posso prendere nuovamente in prestito la parole di altri. Lo faccio con quelle di Silvia Imperiale e Valentina Monsenchio nel libro “Materie intelligenti” (Guerra, 2017).

“L'approccio tangibile e avalutativo della natura rimanda ai bambini una percezione di competenza, li invita a esporsi, a buttarsi in nuove esperienze, proprio come si fa quando si condivide qualcosa con gli amici”, dicono le due autrici. Ma c’è di più: “se i bambini lavorano in gruppo nell'ambiente naturale (…) si possono osservare in loro forme di cooperazione e solidarietà, una percezione e un riconoscimento dell'altro come soggetto competente”. Fuori, oltre la soglia, quando aboliamo il senso unico alternato citato all’inizio di questo capitolo, i bambini possono trovare, costruire e mantenere fin quando saranno ragazzi e ragazze e, infine, adulti una dimensione che sostiene e sollecita gli apprendimenti, la loro condivisione e lo sviluppo di forme di cooperazione che potranno risultare decisive per lo stesso futuro dell’umanità.

Oltre la soglia, pertinenti e senza errore

Mi piace chiudere questo capitolo con un aneddoto e un invito.

L’aneddoto risale a qualche anno fa quando lavoravo in una scuola privata ospitata in una bellissima villa e munita di grandi spazi verdi, tra i quali l’antico giardino segreto che ospitava l’orto da me curato insieme ai bambini. Una mattina d’inverno una bambina della scuola dell’infanzia, approfittando del tempo perso da me e dall’insegnante di turno che chiacchieravamo del nulla, iniziò a strappare le grosse foglie di una pianta erbacea e a infilzarle nei rami secchi di un arbusto. Percependo che stava succedendo qualcosa di particolare, io e la maestra allungammo la nostra chiacchierata. Ben presto la bambina accolse l’aiuto di altri bambini e la parte bassa dell’arbusto fu rivestita di verde. Fu a quel punto che venne da me a chiedere aiuto. Chiesi cosa dovessi fare e mi fu risposto che avrei dovuto proseguire il lavoro laddove i bambini non riuscivano ad arrivare. Eseguii, poi chiesi cosa stessimo facendo. Con un volto pieno di stupore, quasi incredula, la bambina mi rispose “curiamo la pianta, no?”. Chiesi maggiori spiegazioni e mi fu detto che la pianta stava male e aveva perso le foglie. Il nostro lavoro consisteva nel rimetterne di nuove cosicché la pianta potesse guarire.

Ad un adulto una spiegazione del genere può far sorridere, ma io presi la cosa molto seriamente e ricordai le parole del già citato Stefano Sturloni in un convegno. Riconobbi così la pertinenza espressa dai bambini. Certo, nel tentativo c’erano dei grossolani errori di natura tecnica, ma col germe di un’idea che ha applicazione ordinaria in agricoltura: l’innesto. In quel caso specifico non sarebbe mai riuscito e non lo usiamo di certo per restituire alle piante le foglie perse nella stagione invernale, ma l’operazione non era del tutto folle. Soprattutto, c’era il riconoscimento da parte dei bambini dell’appartenenza dell’albero e delle piante erbacee ad uno stesso regno vivente. In questo c’era pertinenza. Solo dopo mi resi conto che anche io avevo imparato qualcosa in quel momento: il tempo perso dagli adulti era stato una ghiotta occasione di apprendimento, non solo per i bambini. Questo accade quando si saltella da una parte all’altra della soglia e, soprattutto, quando ci si ferma su di essa per cogliere le opportunità dell’ecotono educativo.

Mentre rileggo quanto scritto fin qui mi assale un timore: nonostante le dichiarazioni di intenti, la mia propensione ad attraversare l’ecotono, anzi, ad accompagnarvi educatrici e bambini tende a portarci fuori, esattamente come questo libro. C’è un rischio in tutto questo, cioè quello di cadere in una sorta di delirio che ripristina il senso unico alternato orientandolo prevalentemente verso l’esterno, bollando come inadeguato tutto ciò che può accadere dentro o con l’uso di tecnologie moderne. Lavorando e vivendo con dei nativi digitali credo sia un rischio da non correre, ma che sia opportuno ricordare che l’ecotono educativo va attraversato in lungo e in largo, percorrendolo in entrambe le direzioni, tenendo la libertà per tutti, bambini inclusi, di poter scegliere ciò che ognuno considera migliore. Uno dei nostri scopi è dare ai bambini la possibilità di conoscere tutte le opzioni tra cui scegliere e lasciare intendere che un mix tra più possibilità potrebbe dare i maggiori vantaggi. Questo potrebbe essere il non errore da compiere.


Bibliografia

Agostini Francesca, Roberto Farné, Outdoor education – l’educazione si-cura all’aperto, Edizioni Junior - Spaggiari editore, Parma 2014

Barbera Giuseppe, Abbracciare gli Alberi, Il Saggiatore, Milano 2017

Bertoncini Emilio, L’orto delle meraviglie, MdS editore, Pisa 2015

Gray Peter (2013), Lasciateli giocare, Einaudi editore, Torino 2015

Guerra Monica (a cura di), Fuori, suggestioni nell’incontro tra educazione e natura, Franco Angeli Editore, Milano 2015

Guerra Monica (a cura di), Materie intelligenti – il ruolo dei materiali non strutturati naturali e artificiali negli apprendimenti di bambine e bambini, Edizioni Junior - Spaggiari editore, Parma 2017

Hanscom Angela J., Giocate all’aria aperta!, Edizioni Il Leone Verde, Torino 2017

Lorenzoni Franco, I bambini pensano grande – cronaca di un’avventura pedagogica, Sellerio editore, Palermo 2016

Malavasi Laura, L’educazione naturale nei servizi e nelle scuole dell’infanzia, Edizioni Junior – Spaggiari editore, Parma 2013

Pollan Michael, Una seconda Natura, Adelphi edizioni, Milano 2016

Rovelli Carlo, Helgoland, Adelphi edizioni, Milano 2020

Zavalloni Gianfranco, La Pedagogia della Lumaca, EMI, Bologna 2010

2Vogliamo parlare di un giapponese che non mastica una parola di italiano e che quando si muove con me nel bosco potrebbe non avere modo di sapere dove si trova e di come potrebbe chiamare i soccorsi?

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