Al via il corso "Didattica scolastica all'aperto e con gli elementi di natura"

 

Al via il corso "Didattica scolastica all'aperto e con gli elementi di natura" in  formula ibrida on-line con esercitazioni pratiche guidate da tutorial. Il corso si svolge nelle mattine del sabato a partire dal 9 di marzo.

Saranno trattati i seguenti argomenti:

- da un'idea originale di natura lo stimolo per andare oltre la soglia e per valorizzare il chilometro zero educativo,

- progettare la didattica all'aperto nella scuola,

- l'uso dei materiali naturali nella scuola,

- una passeggiata come occasione di apprendimento,

- orto e giardino educativo: uno sguardo pedagogico,

- orticoltura didattica a scuola: un inquadramento generale.


L'impegno complessivo è di 20 ore così suddivise:

- fruizione di un video introduttivo della durata di circa 30 minuti,

- 18 ore in sincrono su piattaforma Google-meet nelle mattine dei seguenti sabati: 09 e 23 marzo, 06 e 20 aprile, 04 e 18 maggio.

- 1,5 ore di esercitazione individuale guidata da tutorial e da documentare con fotografie e video per l'inserimento delle ore in attestato.

La quota di adesione è pari a € 160,00 (centosessanta/00) a persona. Per chi effettua la pre-iscrizione entro il 29/02/2023 la quota è ridotta a € 140,00 (centoquaranta/00) a persona.

Per saperne di più, puoi consultare la scheda di informazioni e eventuale iscrizione disponibile al seguente indirizzo: https://forms.gle/zpjqr4KXpUZdLjB38 

Oltre la soglia, nell’ecotono educativo

"Emilio, la gente non ama leggere testi lunghi nel web". Di solito mi dicono questo e di solito rispondo che chi non ama leggere non legge. Non solo: chi non è interessato non legge. Quindi, ti dico subito che quanto segue è un capitolo di una pubblicazione in divenire desiderosa di diventare un libro. Quindi, è un testo lungo. Per di più senza immagini. Se vuoi scoprire qualcosa, procedi oltre con la lettura. Supera questa soglia. In caso contrario, chiudi subito questa pagina: io non ho niente da dirti che non sia ciò che vuoi scoprire dei miei lunghi e articolati pensieri.

Trova di più all'indirizzo www.ortinellescuole.it

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“L’educazione è un processo che avviene in ogni momento e in ogni luogo”. Suona più o meno così una frase che ho sentito più volte da Antonio Di Pietro, un pedagogista ludico con cui ho avuto la fortuna di lavorare.

Queste parole mi inducono a indagare sulla necessità di distinguere, spesso contrapponendole, tra educazione all’aperto e in spazi chiusi. Quest’ultima, stranamente, non etichettata con l’equivalente anglicismo di indoor education. In fondo, a discriminare tra le due c’è un elemento architettonico, la soglia, che diventa limite e ponte tra due approcci educativi che possiamo, ed è una nostra scelta, considerare complementari o alternativi.

Cosa rappresenta nell’immaginario collettivo quell’elemento architettonico? Provo a rispondere pensando a un genitore che accompagna al nido o a scuola un figlio. È assai probabile che entrare al nido o a scuola significhi varcare la soglia che permette di avere un soffitto sopra la testa. Si è dentro, cioè al nido o a scuola, quando è possibile chiudere dietro di sé una porta. Ciò, nonostante questi due luoghi dell’educare possano avere un cortile, un giardino e un viale che li separa alla strada, dalla piazza o dal parcheggio. Sì, il concetto consolidato è che si impara e si è in custodia di chi insegna quando si è dentro, con un serramento chiuso alle spalle. Non è mia intenzione disquisire sul perché si sia arrivati a tanto, ma prendo atto di quanto accade e provo a ragionare su quella soglia che sottolinea la transizione o la separazione tra fuori e dentro.

Adulti e bambini oltre la soglia

Che si stia da una parte o dall’altra della soglia, apparentemente siamo sempre gli stessi. In realtà, che la nostra zona di comfort sia di qui o di là, indifferentemente sui due lati o, addirittura, sulla soglia, dice molto di noi, della nostra formazione, del nostro agire educativo o di quanto abbiamo bisogno di lavorare in una direzione o nell’altra. Personalmente sento più il bisogno di lavorare in entrata, sebbene nel tempo mi sia avventurato e formato sulla possibile presenza indoor della mia figura professionale. Credo, però, che la generalità di coloro che operano in educazione e a scuola abbiano bisogno di lavorare nella direzione opposta, cercando modi per varcare la soglia diretti verso l’esterno o modi nuovi per varcarla. Per esempio, in molte scuole è normale andare fuori per momenti di ricreazione, ma si tende a non usare gli spazi esterni per fare attività didattica. Il punto, in quei casi, non è quanto ci si sente in comfort fuori, ma quanto si riesce a provare quella sensazione facendo scuola, e non ricreazione, fuori. In discussione, quindi, non c’è soltanto lo spazio in cui collocare il nostro agire didattico o educativo, dentro o fuori, ma ci siamo noi e il nostro stesso agire. È questo il motivo per cui spesso mi interrogo con i team educativi con cui collaboro o svolgo attività formative circa la scelta di introdurre l’educazione all’aperto e la sua condivisione all’interno del gruppo, ragionevolmente composto da persone con attitudini diverse da un lato e dall’altro della soglia, quindi sull’opportunità che sia necessario sfruttare le competenze di ognuno in modo diversificato. Tale riflessione è, a mio modo di vedere, fondamentale e capace di condurre a scelte molto diverse, inclusa quella di non fare educazione all’aperto se non è nelle nostre corde o se il team non riesce a valorizzare le attitudini dei vari membri in tale direzione. Ciò non vuole significare che c’è spazio per una deliberata rinuncia alle opportunità che si presentano oltre la soglia, ma calare il progetto educativo sulle effettive competenze di chi lo attuerà. Viceversa, quando se ne ravvisi la necessità, è importantissimo svolgere attività di formazione atte a sostenere un’adeguata complementarietà tra l’azione educativa svolta fuori e dentro.

Un altro degli aspetti su cui riflettere in fase progettuale e al quale fare molta attenzione anche in fase attuativa è come i bambini si sentano da una parte e dall’altra della soglia. Questo è, a mio modo di vedere, addirittura prioritario rispetto ai vantaggi riconosciuti del varcarla diretti fuori, direzione a cui tende questa pubblicazione e su cui tornerò più avanti. Per quanto l’affermazione che segue non abbia validità generale, si può dire che nel nostro paese si affronta una sorta di paradosso generazionale per cui, se la generazione dei miei genitori doveva essere formata allo star dentro, quella dei miei figli si trova nella condizione opposta, cioè di dover essere formata allo star fuori e, soprattutto, allo star fuori in modi e forme non totalmente organizzate dagli adulti. Andare oltre la soglia, in una direzione e nell’altra, farlo con naturalezza e agendo una complementarietà di questi spazi in chiave educativa, costituisce una delle sfide moderne. L’obiettivo è quello di far familiarizzare i bambini con i diversi contesti e le loro funzioni nella nostra società. A quel “i bambini di oggi non sanno stare fuori” che spesso mi sento dire e che provo a tradurre in “i bambini non trovano nel fuori un’area di comfort”, possiamo cioè sostituire un più opportuno “dobbiamo aiutare i bambini a sentirsi in comfort da un lato e dall’altro della soglia”. Il rischio, altrimenti, è di confinarli in un mondo chiuso senza che abbiano avuto la possibilità di sperimentare l’esterno. Tutto questo senza dimenticarci che quei bambini saranno poi adulti e genitori incapaci di trasmettere ai figli una facilità di frequentazione dei due lati della soglia. Del resto, ogni volta che mi capita di offrire ai bambini la possibilità di varcare la soglia, risuonano in me le parole di Lola Ottolini in “Fuori” (Ottolini, 2015): “i bambini le soglie le cancellano e le attraversano con facilità”. Infatti, anche quei bambini che per abitudine sono meno avvezzi a passare da un lato all’altro della soglia e, soprattutto, di farlo andando fuori, trovano, se sostenuti e aiutati, una propria modalità di familiarizzazione con ciò che prima era estraneo alla loro esperienza. È in tale accompagnamento che agli adulti sono richieste competenze pedagogiche e una adeguatezza al ruolo, condizione che rafforza la necessità di una formazione in tale direzione e, soprattutto, di natura esperienziale.

Molte soglie, una sola azione

Molto spesso ci limitiamo a considerare la soglia che riteniamo più importante, quella tra dentro e fuori, non a caso messi in questo ordine. Non dobbiamo, però, trascurare che è una soglia anche quella che divide i vari locali di un edificio, sebbene sia talvolta sfumata fino a perdere la propria consistenza architettonica o ridotta ad una linea sottile. In quella propensione dal dentro al fuori che di solito ci caratterizza e ci porta a sottolineare quanto tempo ci serve per prepararci a uscire, ma non quanto ne serva per prepararci a rientrare, provo a suggerire che, anche quando non evidenziate da particolari architettonici, le soglie siano molte anche fuori.

Lo sono, per esempio, tutte le linee che separano superfici con diversa natura. Un’area pavimentata non ha le stesse caratteristiche del prato o del cortile inghiaiato e aree con pavimentazione diversa non si comportano allo stesso modo, per esempio, in occasione di una giornata di pioggia (o di sole!) o quando vi facciamo rotolare o scivolare un oggetto. Le linee di separazione sono soglie che dividono spazi capaci di offrire esperienze diverse. Quando arriva il sole, un prato rimane scivoloso e bagnato più a lungo di un marciapiedi. Lo stesso prato tende a drenare meglio l’acqua di un terreno compattato e impermeabile. Per questo nel secondo caso è più facile la formazione di una pozzanghera, ma questa non si formerà in una superficie pavimentata. Far rotolare una palla è più difficile e imprevedibile dove affiorano le radici di un albero che in un cortile asfaltato, così come una caduta ha esiti diversi nei due casi. Tutte situazioni diverse ai lati di soglie che spesso tendiamo a non prendere in considerazione.

Un’altra soglia importante, spesso esistente anche dal punto di vista architettonico, è quella che separa il fuori di pertinenza del nostro edificio (giardino, cortile, ecc.) dal resto del mondo. Il cancello è una soglia oltre la quale ci sono il borgo, la città o la campagna. E la fuori compaiono altri limiti, così possiamo cominciare a interpretare le soglie tra spazi di mondo che offrono opportunità diverse, come vedremo meglio nel prossimo capitolo.

Oltre a queste soglie solide, ce ne sono altre meno tangibili, ma altrettanto importanti e sono quelle temporali imposte da routine e orari quasi sempre rigidi e invariabili. Soglie che spesso dividono il possibile dall’impossibile generando questa seconda condizione. La fine dell’ora, lo scadere del tempo per un dato gruppo, il momento della mensa, arrivano spesso ad interrompere momenti di grande significato. Mi sovvengono certi bei racconti in giardino (le cosiddette restituzioni spontanee) interrotti da una voce che proclama un indesiderato “andiamo, è tardi!”. In altri casi, una rigida programmazione temporale li esclude proprio, spesso in nome di una sorta di “democrazia dell’apprendimento” (Bertoncini, 2015) che di democratico ha soprattutto la generalizzata perdita di opportunità. Il tutto mentre routine e orari rimangono invariati da ottobre a giugno, come se il mondo là fuori fosse sempre uguale, come se le 9.30 del mattino di gennaio e di giugno fossero equivalenti, anche solo in termini comfort ed esperienze realizzabili. Eppure anche questa soglia separa degli spazi, seppur concettuali: quello delle opportunità educative da quello della buona logistica.

Mentre scrivo mi chiedo perché stia continuando a dire che le soglie separano spazi. Se lo facessero, sarebbe impossibile andare da uno all’altro e per questo tipo di azione l’elemento architettonico più funzionale è il muro. In effetti, non è come ho detto fino ad ora: le soglie non separano, ma connettono spazi diversi e ci consentono, secondo regole che ci diamo e che possono tradursi in fatti architettonici (una porta, un cancello, ecc.), di passare da un ambiente all’altro. L’azione di una soglia è, quindi, quella di collegare, di mettere in comunicazione. Che lo faccia o meno dipende da noi e da altri tipi di soglie e limiti che possiamo metterci in condizione di attraversare mentre ci spostiamo tra spazi che offrono opportunità educative diverse.

Non solo soglie fisiche

Quali altre soglie collegano le esperienze educative che possiamo svolgere in ambienti diversi? Ovvero, quali limiti varchiamo superando la soglia in una direzione o nell’altra? Io ne vedo almeno tre, fortemente interconnessi: quelli culturali, quelli giuridici e quelli psicologici. Ammetto di aver cambiato l’ordine più volte, come per attribuire un’importanza diversa a ciascuno di loro e di non essere ancora soddisfatto.

Che vi siano soglie culturali è reso evidente dai numerosi movimenti di opinione e associazioni che negli ultimi hanno lavorato sul tema dell’outdoor education e dalla stessa attenzione che il mondo accademico ha posto su questo tema ideando anche percorsi formativi mirati1, ma anche dall’attenzione con cui i media trattano l’argomento o, semplicemente, dal diverso grado di stupore che genera la vista di studenti per le strade di borghi e città solitamente non destinazione del turismo scolastico. Ricordo ancora le persone che si affacciavano da case e negozi quando nel lontano 2013 le dieci classi della Scuola Primaria Pascoli di Pietrasanta (LU) attraversarono la cittadina, una dopo l’altra, per far nascere l’Orto del Giardino della Lumaca. Fu un vero e proprio evento. Eppure si trattava degli stessi bambini che nel pomeriggio avrebbero invaso le vie in cerca di una gelateria. Agli occhi delle persone, per quanto era consolidata l’idea che gli studenti dovessero stare dentro la scuola, sembrava in atto una vera e propria evasione.

Le resistenze o le pressioni dei genitori affinché a scuola o al nido si vada fuori sono un indicatore di una richiesta di attività all’aperto crescente, ma non sempre condivisa nella nostra società. Spesso l’appiglio sanitario diventa determinante con opposte fazioni di genitori, ma anche di insegnanti e educatrici, che sostengono tanto che ad andare fuori ci si possa ammalare di più, quanto l’esatto contrario.

Un altro segnale consiste nel fatto che, dopo decenni in cui il giardino della scuola è stato uno spazio trascurato o, al più, trattato alla stessa stregua di un comune parco pubblico, molte amministrazioni comunali e scuole stanno facendo importanti lavori di riprogettazione e miglioramento tesi ad aumentarne la funzione didattica. Tutto questo è, per chi come me crede nell’importanza di un’adeguata integrazione tra le pratiche educative svolte da un lato e dell’altro della soglia, incoraggiante. Credo, però, che finché avremo bisogno di distinguere l’outdoor education dalle altre modalità, ci sarà molta strada da percorrere.

È innegabile che ci siano delle soglie di natura giuridica che possono unire spazi educativi diversi, sia in senso assoluto (e contingente), sia in funzione di alcuni fattori culturali.

Una di queste è soglia che separa tutto ciò che è scuola dal resto del mondo e stabilisce un confine tra giurisdizioni e regole. Per esempio, il “Regolamento di Istituto” si applica all’interno della scuola e a chiunque vi acceda, ma non fuori da essa, salvo che per gli aspetti che regolamentano le uscite didattiche. Per queste è solitamente prevista una specifica autorizzazione dei genitori, mentre per andare nel giardino essa non è necessaria perché si è ancora a scuola. La presa in custodia degli studenti avviene al superamento di una soglia ben individuata, così come il passaggio della loro custodia a terzi. Lo stesso vale per i servizi educativi. In un paio di esperienze condotte in due nidi toscani ho vissuto la singolare situazione di dover attendere l’autorizzazione dei genitori per uscire in quello che tecnicamente era il giardino del nido, ma non risultava inserito nelle planimetrie degli spazi autorizzati. Mentre fisicamente non facevamo altro che superare il cancellino che metteva in comunicazione due settori dello stesso giardino, giuridicamente stavamo uscendo dal nido, come se fossimo andati nel parco cittadino più lontano.

È del tutto evidente che le responsabilità che scaturiscono dal quadro giuridico vigente all’interno della scuola sono completamente diverse rispetto a quelle vigenti altrove e che all’interno della scuola o del nido poco cambia a seconda che ci si trovi in un’aula o nel giardino. Eppure c’è un fattore culturale che interviene a modificare le cose. Poiché l’idea più consolidata è quella che l’educazione e l’insegnamento si facciano dentro, la possibilità di avere grane legali o assicurative in caso di infortunio all’interno e all’esterno è diversa. Nessuno chiederebbe mai conto del perché un bambino si trova in un’aula, ma del perché si trovasse fuori nelle specifiche condizioni che hanno generato l’infortunio sì. Cosa ci facevamo alle 10 del mattino sotto una lieve pioggerellina tra i cassoni dell’orto? Noi lo sappiamo bene che stavamo osservando le lumache, ma il dubbio che tra fare psicomotricità o algebra in un caldo interno e osservare gasteropodi in un freddo e umido esterno vi sia una differenza in termini di sicurezza ci assale e la nostra mente corre almeno alla giusta riga del PtOF, del progetto educativo o di un qualche documento ufficiale che possa farci da pezza d’appoggio per la difesa. Perché accade questo? L’orto o il giardino sono parte della scuola e un’attività didattica curricolare, magari condita dei sacri crismi del compito di realtà o della rigorosa applicazione pratica del metodo scientifico, sono fare scuola. Eppure molti di noi non ce la fanno a sentirsi “a posto”. Questo perché l’ambito culturale e quello giuridico dialogano di continuo, ma non sempre in accordo tra loro.

Probabilmente abbiamo già superato la terza soglia dell’elenco di apertura: quella psicologica. Quanto pesano il quadro giuridico e il contesto culturale nell’influenzare la nostra predisposizione a varcare le soglie che ci consentono di integrare le opportunità offerte dai vari ambienti di apprendimento? E questo peso non va oltre il necessario per creare una pressione psicologica che rende il nostro agire nei tempi formali dell’educazione e della scuola più incerto e timoroso? Io credo di sì, almeno a giudicare da come cambia il mio vissuto quando mi trovo all’interno del perimetro di una scuola con gli studenti o con i miei figli e i loro amici durante una scampagnata. Di solito, nel primo caso avverto la necessità di un insieme di valutazioni, azioni e precauzioni che vanno al di là di quanto sento normalmente necessario nella seconda circostanza. Non è una questione di responsabilità, anche perché so bene che, avendo qualche titolo in materia di accompagnamento, le responsabilità che derivano dall’affidamento a me di figli di terzi e, in qualche caso, anche di adulti2, diventa un gravame giuridico di non poco conto. Al pari di questa pressione, che induce ad un eccesso di cautele e ci rende più incerti, interagire con una comunità fortemente vocata al superamento delle soglie potrebbe produrre l’effetto esattamente opposto, cioè renderci fin tropo sicuri e condurci a sottovalutare qualche aspetto legato alla sicurezza. A me, per esempio, è successo di lavorare in una scuola in cui genitori e insegnanti condividevano l’accettazione di un livello di rischio assai superiore alla media. Potrei dire che la “ragionevolezza del rischio” in quel contesto era poco ragionevole per la sensibilità comune nella nostra società. Questo incoraggiava, indubbiamente, a cogliere il valore educativo di alcune situazioni. Tuttavia, non sono poche le circostanze in cui, come si suol dire, “è andata bene”, almeno al mio sguardo. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente le parole di un formatore di un corso sulla sicurezza seguito alla fine degli anni ‘90, un magistrato di cui non ricordo il nome, che diceva “ogni volta che vi sentite di poter dire che è andata bene, annotate un infortunio senza danno e analizzate le cose per capire che non basta sempre la fortuna”. Ecco, in quei casi siamo stati fortunati, ma anche un po’ sciocchi perché condividere un’irragionevolezza può condurci su un terreno altrettanto scivoloso, sia che l’uscita dalla ragionevolezza avvenga in una direzione o nell’altra. Per spiegarmi meglio, tra non cogliere un’opportunità educativa per evitare un rischio e correrne uno inaccettabile per fare un’esperienza educativa, a mio avviso, non c’è molta differenza. Lo spostarsi da una parte all’altra della soglia tra ragionevole e irragionevole è frutto di un fatto psicologico a sua volta influenzato dal quadro giuridico e culturale.

Ciò detto, sperando che il mio ragionamento abbia un’utilità, provo a chiedermi perché solitamente le tre soglie in questione vertano sulla sicurezza (e la responsabilità) e non sull’educare. Perché il nostro sguardo sembra saper mettere a fuoco solo da vicino (“Si faranno male i bambini?”) e non è capace di vedere lontano (“Cosa apprenderanno i bambini per la loro futura sicurezza?”)? Non ho una risposta, ma invito ognuno di noi a riflettere su questa domanda.

Le soglie come ecotono educativo

A questo punto della riflessione sento ancora più pressante l’invito a discernere tra soglie e muri, tra elementi che collegano e elementi che separano. Questo perché il rischio di sollevare le soglie per farne muri è alto. Derivando la nozione dalle mie conoscenze ecologiche, mi piace pensare che le tre soglie di cui ho appena parlato, le altre già citate e quelle che ho dimenticato, in quanto elemento di passaggio tra ambienti diversi, possano costituire un ecotono educativo.

Ecco la definizione di ecotono tratta da www.treccani.it: “in ecologia, zona di transizione (e di tensione) fra due o più comunità biologiche diverse (per es., foresta e prateria, fondo roccioso e fondo melmoso del mare, ecc.), in cui si trovano organismi propri delle comunità confinanti, ma anche altri, esclusivi della zona stessa”. Uno dei motivi per cui si parla molto di ecotoni è che costituiscono ambienti di eccezionale ricchezza biologica e, purtroppo, sottoposti a forte minaccia umana in molte parti del pianeta. Pensiamo, per esempio, a che fine hanno fatto gli ecotoni costieri delle nostre riviere più vocate al turismo.

La definizione di ecotono educativo potrebbe essere questa: zona di transizione (e di tensione) fra due o più ambienti fisici o pedagogici diversi (per es., dentro e fuori, prato e cortile, giardino e mensa, propensione e diffidenza, ecc.), in cui si possono cogliere opportunità proprie delle realtà confinanti, ma anche altre, esclusive della zona stessa. Credo sia piuttosto facile comprendere l’analogia con l’econotono biologico: anche le soglie, nel loro complesso, sono un ambiente di eccezionale ricchezza educativa, ma sono sottoposte a forte minaccia umana. Pensiamo, per esempio, a che fine può fare l’educazione quando le soglie diventano muri invalicabili.

Se l’ecologia ci suggerisce l’importanza e la necessità di ridurre le pressioni che portano ad alterare, semplificare e distruggere gli ambienti ecotonali, possiamo cogliere lo stesso suggerimento per l’ecotono educativo e cercare di valorizzarlo. Potrebbe, addirittura, diventare un nostro osservatorio privilegiato, trasformando la soglia nella comoda seduta o nell’intrepido trampolino da cui osservare ciò che sta da una parte e dall’altra per poi decidere in quale direzione muoversi per cogliere le migliori opportunità. Sarà un movimento che non conosce la nozione di senso unico ma, piuttosto, quella di osmosi, di graduale e utile passaggio da un ambiente all’altro, da un lato all’altro della soglia, senza trascurare l’importanza di abitarla.

Oltre la soglia, in cerca di natura con qualche appiglio pedagogico

Se di osmosi dovrà trattarsi, in molte realtà educative e scolastiche ad oggi sembra vigere o almeno prevalere un senso unico alternato che prevede di superare la soglia per entrare nell’edificio, svolgere l’attività educativa e didattica per lo più all’interno e, quindi, invertire il senso unico per uscire e tornare alla vita extrascolastica. È a fronte di tale situazione che in questo paragrafo andrò in cerca di appigli pedagogici per il superamento della soglia in cerca di natura, quindi in direzione del giardino e, come suggerirò nel prossimo capitolo, di quello che c’è oltre. Lo farò attraverso una riflessione guidata da una serie di citazioni di chi è pedagogista o figura importante del panorama educativo a me visibile. Mi si perdonerà se il mio sguardo non arriva sufficientemente lontano o se, qualche volta, attingerò da chi dice cose per me interessanti, anche se vive e lavora in altri mondi.

Inizierò, anzi, proprio da chi si occupa di ben altro, cioè con Giuseppe Barbera, docente di colture arboree all’Università di Palermo, che scrive quanto segue: “se osserva un albero con un maestro o un genitore attento, un bambino apprende storie di paesi lontani, viaggia con la fantasia, ritorna alle favole, applica nozioni di botanica, zoologia, ecologia anche tra gli spazi di un marciapiede di cemento” (Barbera, 2017). In fondo, attraversare le soglie del nostro ecotono educativo per andare fuori in cerca di natura può voler dire creare proprio queste condizioni: valorizzare ciò che abbiamo a disposizione, anche un marciapiede di cemento, per offrire ai bambini l’opportunità di apprendere e per sostenerli con grande attenzione in questo processo. Il potere evocativo e metaforico degli alberi (Pollan, 1991-2016) incoraggia in questa direzione, ma anche l’incontro con un filo d’erba o con una formica valgono la pena di provarci. Angela J. Hanscom ci ricorda che “nella natura i bambini imparano a correre dei rischi, a superare le paure, a farsi nuovi amici, a regolare le emozioni, a creare mondi immaginari” (Hanscom, 2017) e che il ruolo degli adulti che offrono tempo e spazio per attività quotidiane di gioco all’aria aperta è fondamentale.

Già, tempo e spazio, due realtà talora tiranne o, come tendo a pensare, trattate con tirannia da una società che spesso perde i riferimenti più importanti, come il valore del tempo che si dedica a ciò che si fa. Tutto deve essere veloce. Anzi, tutti dobbiamo imparare che veloce è più bello, più funzionale, più non si sa bene cosa. Stranamente, nella civiltà che si consacra alla velocità, uno degli indicatori del benessere è la durata della nostra vita. Avere molto tempo per vivere e fare le cose velocemente a me sembra un controsenso e, in accordo con le parole di Franco Lorenzoni, andare oltre la soglia può essere una buona occasione per evitare di imitare ciò che accade nella società e, almeno nel mondo educativo e scolastico, operare per contrasto trovandovi un luogo in cui, mentre tutti corrono, poter andare lenti. Del resto, procedere lentamente è un modo per aumentare le possibilità che arrivino tutti e per incontrare davvero qualcosa. Per questo “bisogna dare ai ragazzi il tempo di perdere tempo” (Lorenzoni, 2014) e, forse, pensare che “il tempo perso in realtà è un tempo biologicamente necessario” (Zavalloni, 2008). Il tempo offerto dagli adulti ai bambini oltre la soglia, anche quando agli occhi della società che corre veloce sembra perso, è infatti una delle condizioni che trasforma gli spazi educativi in contesti nei quali i bimbi possono farsi carico della propria educazione, apprendendo per propria iniziativa, condizione peraltro tipica del gioco libero, attività cui restituire valore anche quando si lavora con i più grandi, e che consente apprendimenti altrimenti impossibili (Gray, 2013).

Quali sono gli spazi utili per educare in e alla natura? Secondo Andrea Ceciliani (in Agostini-Farné, 2014), “l'educazione all'aperto non richiede spazi particolari, ma una predisposizione mentale da parte dell'adulto”. In tal senso, una delle cose da fare è evitare di subordinare il tentativo di educare oltre la soglia alle caratteristiche di ciò che vi si trova, cercando invece di valorizzare il ruolo di queste ultime. Non importa, cioè, se vi siano un prato o una pavimentazione, un albero o una pianta in vaso, una recinzione o una siepe, un parco o un bosco, ma come gli adulti si predispongono a sfruttare le opportunità offerte da questi elementi, senza trascurare piccole trasformazioni da operare nel tempo per migliorare gradualmente gli spazi, senza dover subire anche i limiti delle ristrettezze economiche. È così che ciò che sta ai due lati della grande soglia che divide il dentro dal fuori può creare la privilegiata condizione per cui “l'ambiente esterno è l'aula a cui attingere sul piano dei campi di esperienza”, mentre lo spazio interno può costituire l'ambiente in cui “si sedimentano e si elaborano le esperienze” (Agostini-Farné, 2014). Provo ad aggiungere un personalissimo “senza trascurare la possibilità che i ruoli possano invertirsi”. Come scrive Alessandro Bortolotti (in Agostini-Farné, 2014), l’ambiente esterno, se popolato da adulti attenti ai loro fabbisogni, diviene quello in cui il bambino “sperimenta la propria autonomia, che è libertà di agire non in senso assoluto, ma nelle condizioni che l'ambiente pone, nel rapporto concreto tra possibilità e limiti”. Mi viene da suggerire “in un rapporto concreto con la realtà” che metta al centro il bambino chiedendosi “non soltanto ciò che al bambino serve oggi, ma ciò che a quel bambino di oggi servirà un giorno” (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014). Questo può costituire una svolta epocale, soprattutto per quanto riguarda l’accettazione dei rischi che caratterizzano l’educare oltre la soglia. Rischi non aggiuntivi, come spesso si ritiene quando si è abituati a stare dentro, ma costitutivi, caratterizzanti e di valore formativo proprio in prospettiva futura. Scoprire da bambini che sul ghiaccio si scivola, che stare al sole può provocare disagio e malessere, che alcuni insetti sono pericolosi e altri no o che esistono piante velenose dentro le quali poter giocare e nascondersi, costruisce un patrimonio di conoscenze e competenze che ci rendono adolescenti e adulti capaci di vivere nel mondo, che non è un luogo sempre protetto e sicuro, senza farci schiacciare dalla paura.

Stare fuori, nella natura che c’è oltre la soglia, non necessariamente straordinaria, ma presente nel quotidiano, quindi capace di insediarsi intimamente in noi, consente anche quella necessaria immersione nell'ambiente che dà ai bambini “la possibilità di osservare, sperimentare e attribuire un senso al contesto in cui si trovano, quel senso che permetterà loro di decidere se e come prendersene cura” (Schenetti in Agostini-Farné, 2014). È, infatti, oltre la soglia, diretti all’esterno, che si può maturare, conoscendola per come ci viene offerta, una qualche forma di rispetto e convivenza pacifica con la natura, una percezione dell’ambiente naturale come propria casa. A ben pensarci, oltre la soglia è più facile scoprire che la realtà non è divisa in livelli, ma che “i livelli in cui la scomponiamo, gli oggetti in cui la dividiamo, sono modi in cui la natura correla in noi” e che “la separazione della realtà in livelli è relativa al nostro modo di interagire con essa” (Rovelli, 2020). Se, come suggeriscono Monica Guerra, Claudia Ottella e Sara Vincetti, “i bambini non pensano per discipline, ma si interrogano su un mondo intero e non frammentato” (Guerra, 2017), oltre la soglia troviamo l’opportunità di costruire modi nuovi in cui la natura correla in noi, cogliendo anche “la possibilità di confrontarci con il sistema complesso che sta alla base di ogni altra complessità con la quale abbiamo a che fare nel quotidiano” (Bertolino e Perazzone in Guerra, 2017). Ciò richiede “un approccio metodologico in cui il ruolo dell'adulto (…) non è più quello dell'insegnante che propone quesiti o dell'educatore che indica attività, ma diventa quello dell'adulto capace di stare ad ascoltare l'interesse e le domande spontanee dei bambini” (Guerra, Ottella, Vincetti in Guerra, 2017) garantendo quel livello di esplorazione del mondo che dona unicità e sorpresa alla nostra esperienza, “condizione di ben altro impatto formativo che far posto a dati accessori, estranei alle emozioni, e come tali destinati a dissolversi in breve senza lasciare in noi alcun segno” (Stefano Sturloni in Guerra, 2017). Tale approccio richiede di accogliere anche ciò che, a volte, agli adulti non piace, come l’apparente disinteresse dei bambini e dei ragazzi per ciò che viene proposto. In tal senso, mentre educhiamo in e alla natura dobbiamo tenere presente che noi umani, anche da bambini, “siamo orientati a cogliere quello che ci interessa comprendere, magari in un preciso momento, e a lasciarci sfuggire ciò verso cui non siamo indirizzati o per cui non siamo predisposti” (Bertolino e Perazzone in Guerra, 2017). Questo, nella natura che “si offre all'esplorazione sia sul livello micro che sul macro a seconda dello stile osservativo e del desiderio di relazione individuale

di ciascuno” (Malavasi, 2013) determina uno scenario talora scomposto e apparentemente disorganizzato del nostro star fuori educativo, molto disallineato da un’idea di controllo e ordine geometrico della distribuzione dei corpi che ereditiamo da un certo modo di fare scuola, secondo me un po’ violento e vicino a logiche di intruppamento quasi militari. Eppure, in un disarticolato gruppo di bambini che si muovono oltre la soglia, nella natura che c’è, si riconosce la radicale assenza di certezze, l’apertura al dubbio e la forza del pensiero scientifico, “pensiero della curiosità, della rivolta, del cambiamento”, nonché una moltitudine di sguardi e prospettive interne al mondo che si riflettono a vicenda (Rovelli, 2020). È probabilmente per questo che “nella vita outdoor le esperienze educative si possono ritenere accurate quando si costruiscono e si modellano con una certa artisticità e artigianalità a partire dall'imprevedibilità della relazione con i bambini” (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014), soggetti propensi ad esercitare il proprio diritto ad una prospettiva personale, e tra i bambini e l’ambiente, sempre in reciproco influenzamento, come accade quando una farfalla attrae un bimbo e questa vola via perché ne percepisce la presenza. Cogliere le opportunità educative offerte dalla natura significa, cioè, adattare continuamente il proprio agire in un instabile equilibrio tra ciò che abbiamo programmato e ciò che si presenta imprevedibilmente e si offre solo in quel momento. I livelli di imprevedibilità sono molteplici ed interagenti. Ci si può presentare una circostanza realmente straordinaria oppure qualcosa di prevedibile nella propria natura, ma non programmabile, né valorizzabile in un momento successivo (la farfalla, un arcobaleno) e la reazione dei bambini può essere la più variabile, da un incantato entusiasmo alla paura più estrema. È in quel momento, però, che dobbiamo decidere cosa fare e come farlo, che la nostra esperienza e le nostre capacità di agire come artisti e artigiani dell’educazione possono consentire di cogliere l’opportunità che si presenta, con l’ulteriore sfida di saper cogliere ciò che davvero aggiunge qualcosa in termini di apprendimenti, senza cadere nella trappola di lasciarsi distrarre da tutto e non lasciarsi attrarre da niente.

Ancora, ci è richiesto di cogliere, rispettare e condividere la capacità che ha il bambino di immergersi “nella natura come parte integrante delle attività, non come paesaggio, ma come autentica esperienza sensoriale” (Andrea Ceciliani in Agostini-Farné, 2014), immersione che protrae a lungo, talora in modo sorprendente e contrastante con le nostre routine temporali, coinvolgimento, impegno e concentrazione in attività spontanee senza che appaiano affaticamento, noia o nervosismo (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014). Non di rado, un adulto attento va in conflitto con se stesso nel tentativo di mettere insieme il mosaico di universi temporali che si genera nel gruppo dei bambini e i tempi che organizzazione e logistica della comunità educante (il nido, la scuola, ecc.) impongono in nome del buon funzionamento della macchina educativa. A me accade spesso quando i bambini mi donano il proprio spontaneo storytelling, la restituzione di saperi ed esperienze che si fa appagante condivisione, che stimola la passione dei piccoletti che si trovano davanti ai miei occhi, momento nel quale “l'esperienza del movimento, dell'entrare in relazione con gli elementi naturali, osservare, coltivare, raccogliere, costringe il bambino a trovare nuovi modi per esprimersi, nuove domande, nuove connessioni simboliche” (Michela Schenetti in Agostini-Farné, 2014). È un momento in cui la sfida comunicativa li fa crescere nella relazione e nell’esercizio dell’importanza della condivisione dei linguaggi ed è un frangente che, a mio modo di vedere, condivise tutte le esigenze di natura logistica e senza che si debba mettere in crisi il sistema inducendo la narrazione in momenti non appropriati (ma chi lo decide quando sono davvero appropriati?), merita rispetto e vale ben la pena di realizzare un piccolo ritardo per sospingere un momento di grande importanza evolutiva per la persona che sta di fronte a noi.

Tempi, spazi, adulti. E loro, i bambini? Non posso certo avventurarmi su un terreno così difficile, non avendo alcuna competenza, ma posso prendere nuovamente in prestito la parole di altri. Lo faccio con quelle di Silvia Imperiale e Valentina Monsenchio nel libro “Materie intelligenti” (Guerra, 2017).

“L'approccio tangibile e avalutativo della natura rimanda ai bambini una percezione di competenza, li invita a esporsi, a buttarsi in nuove esperienze, proprio come si fa quando si condivide qualcosa con gli amici”, dicono le due autrici. Ma c’è di più: “se i bambini lavorano in gruppo nell'ambiente naturale (…) si possono osservare in loro forme di cooperazione e solidarietà, una percezione e un riconoscimento dell'altro come soggetto competente”. Fuori, oltre la soglia, quando aboliamo il senso unico alternato citato all’inizio di questo capitolo, i bambini possono trovare, costruire e mantenere fin quando saranno ragazzi e ragazze e, infine, adulti una dimensione che sostiene e sollecita gli apprendimenti, la loro condivisione e lo sviluppo di forme di cooperazione che potranno risultare decisive per lo stesso futuro dell’umanità.

Oltre la soglia, pertinenti e senza errore

Mi piace chiudere questo capitolo con un aneddoto e un invito.

L’aneddoto risale a qualche anno fa quando lavoravo in una scuola privata ospitata in una bellissima villa e munita di grandi spazi verdi, tra i quali l’antico giardino segreto che ospitava l’orto da me curato insieme ai bambini. Una mattina d’inverno una bambina della scuola dell’infanzia, approfittando del tempo perso da me e dall’insegnante di turno che chiacchieravamo del nulla, iniziò a strappare le grosse foglie di una pianta erbacea e a infilzarle nei rami secchi di un arbusto. Percependo che stava succedendo qualcosa di particolare, io e la maestra allungammo la nostra chiacchierata. Ben presto la bambina accolse l’aiuto di altri bambini e la parte bassa dell’arbusto fu rivestita di verde. Fu a quel punto che venne da me a chiedere aiuto. Chiesi cosa dovessi fare e mi fu risposto che avrei dovuto proseguire il lavoro laddove i bambini non riuscivano ad arrivare. Eseguii, poi chiesi cosa stessimo facendo. Con un volto pieno di stupore, quasi incredula, la bambina mi rispose “curiamo la pianta, no?”. Chiesi maggiori spiegazioni e mi fu detto che la pianta stava male e aveva perso le foglie. Il nostro lavoro consisteva nel rimetterne di nuove cosicché la pianta potesse guarire.

Ad un adulto una spiegazione del genere può far sorridere, ma io presi la cosa molto seriamente e ricordai le parole del già citato Stefano Sturloni in un convegno. Riconobbi così la pertinenza espressa dai bambini. Certo, nel tentativo c’erano dei grossolani errori di natura tecnica, ma col germe di un’idea che ha applicazione ordinaria in agricoltura: l’innesto. In quel caso specifico non sarebbe mai riuscito e non lo usiamo di certo per restituire alle piante le foglie perse nella stagione invernale, ma l’operazione non era del tutto folle. Soprattutto, c’era il riconoscimento da parte dei bambini dell’appartenenza dell’albero e delle piante erbacee ad uno stesso regno vivente. In questo c’era pertinenza. Solo dopo mi resi conto che anche io avevo imparato qualcosa in quel momento: il tempo perso dagli adulti era stato una ghiotta occasione di apprendimento, non solo per i bambini. Questo accade quando si saltella da una parte all’altra della soglia e, soprattutto, quando ci si ferma su di essa per cogliere le opportunità dell’ecotono educativo.

Mentre rileggo quanto scritto fin qui mi assale un timore: nonostante le dichiarazioni di intenti, la mia propensione ad attraversare l’ecotono, anzi, ad accompagnarvi educatrici e bambini tende a portarci fuori, esattamente come questo libro. C’è un rischio in tutto questo, cioè quello di cadere in una sorta di delirio che ripristina il senso unico alternato orientandolo prevalentemente verso l’esterno, bollando come inadeguato tutto ciò che può accadere dentro o con l’uso di tecnologie moderne. Lavorando e vivendo con dei nativi digitali credo sia un rischio da non correre, ma che sia opportuno ricordare che l’ecotono educativo va attraversato in lungo e in largo, percorrendolo in entrambe le direzioni, tenendo la libertà per tutti, bambini inclusi, di poter scegliere ciò che ognuno considera migliore. Uno dei nostri scopi è dare ai bambini la possibilità di conoscere tutte le opzioni tra cui scegliere e lasciare intendere che un mix tra più possibilità potrebbe dare i maggiori vantaggi. Questo potrebbe essere il non errore da compiere.


Bibliografia

Agostini Francesca, Roberto Farné, Outdoor education – l’educazione si-cura all’aperto, Edizioni Junior - Spaggiari editore, Parma 2014

Barbera Giuseppe, Abbracciare gli Alberi, Il Saggiatore, Milano 2017

Bertoncini Emilio, L’orto delle meraviglie, MdS editore, Pisa 2015

Gray Peter (2013), Lasciateli giocare, Einaudi editore, Torino 2015

Guerra Monica (a cura di), Fuori, suggestioni nell’incontro tra educazione e natura, Franco Angeli Editore, Milano 2015

Guerra Monica (a cura di), Materie intelligenti – il ruolo dei materiali non strutturati naturali e artificiali negli apprendimenti di bambine e bambini, Edizioni Junior - Spaggiari editore, Parma 2017

Hanscom Angela J., Giocate all’aria aperta!, Edizioni Il Leone Verde, Torino 2017

Lorenzoni Franco, I bambini pensano grande – cronaca di un’avventura pedagogica, Sellerio editore, Palermo 2016

Malavasi Laura, L’educazione naturale nei servizi e nelle scuole dell’infanzia, Edizioni Junior – Spaggiari editore, Parma 2013

Pollan Michael, Una seconda Natura, Adelphi edizioni, Milano 2016

Rovelli Carlo, Helgoland, Adelphi edizioni, Milano 2020

Zavalloni Gianfranco, La Pedagogia della Lumaca, EMI, Bologna 2010

2Vogliamo parlare di un giapponese che non mastica una parola di italiano e che quando si muove con me nel bosco potrebbe non avere modo di sapere dove si trova e di come potrebbe chiamare i soccorsi?

Bambini in città, agevolatori di natura per una piccola rivoluzione urbana?

C’è natura in città?

La domanda, semplice e diretta come quelle che sanno fare i bambini, richiederebbe una risposta articolata partendo da un altro quesito: cos’è “la natura”? La questione potrebbe complicarsi perché ognuno ha una propria idea di natura che si forma sotto l’influenza culturale della società. Non volendomi avventurare in questa riflessione, parto dall’assunto che per molti di noi la natura è un po’ l’antitesi di tutto ciò che è l’artificio introdotto dall’uomo. Così, una diga, un’autostrada, la stessa città non sono visti come parti della natura. Viceversa, il fiume, il bosco e la campagna sono normalmente individuati come spazi naturali, anche se nella generalità delle nostre esperienze sono ambienti che hanno subito profonde modificazioni dovute agli interventi umani. Un occhio competente riconosce le forme di governo, cioè di coltivazione, del bosco e i naturalisti ci fanno notare che le campagne in cui amiamo trascorrere i nostri “week-end in natura” o i fiumi che le attraversano sono spesso il risultato di una profonda alterazione, se non distruzione, di ambienti naturali. Insomma, la questione è assai complessa, forse troppo per essere affrontata con “occhi bambini”. Con questi, però, è possibile cercare, aiutare o portare la natura in città, diventando veri e propri “agevolatori di natura”.

Osservare per aiutare la natura

La prima cosa da fare per aiutare la natura in città è scoprire dove essa si annida, talora favorita dall’azione umana, talaltra con l’impertinenza di chi da sempre sul pianeta è pioniere e pronto a cogliere delle opportunità. Camminando con occhi attenti e spirito di scoperta, si possono individuare piante, animali e funghi residenti in città. Alle piante coltivate nei giardini e negli orti urbani, se ne accompagnano molte altre che riescono a crescere spontaneamente su terreni incolti o, addirittura, sui monumenti. Nei prati, sulle piante o su loro parti morte, è facile scoprire i funghi. Alcuni, come quelli a mensola agenti della carie del legno, cioè di quella malattia che rende cavi e pericolosi gli alberi, sono visibili quasi sempre, mentre altri compaiono stagionalmente. Con occhi attenti, nei giardini e sui muri è possibile vedere api e formiche al lavoro, le tane degli animali o i nidi degli uccelli. Anche altri insetti si rendono percepibili ai nostri sensi, soprattutto nella buona stagione. Alcuni sono a noi graditi, come le farfalle e le coccinelle, altri un po’ di meno, come le zanzare, le mosche o le vespe. Tutto questo dimostra una cosa importante: la città è colma di natura. Basta avere gli occhi per cercarla ed essa è ovunque, anche nel nostro armadio, nel sottovaso dei fiori sul balcone o sui vecchi mattoni di una casa. Avete mai visto i bei disegni creati dai muschi e dai licheni? Questi ultimi sono viventi molto particolari frutto di una simbiosi, cioè di un’unione che da vantaggi reciproci, tra un’alga e un fungo. La loro combinazione li rende capaci di colonizzare ambienti ostili alla maggior parte degli esseri viventi e la loro presenza è un importante indicatore ambientale poiché sono sensibili all’inquinamento urbano.

Osservando con gli occhi del naturalista, potremmo imbatterci anche negli alieni, compresi quelli particolarmente invasivi. Si tratta di animali1 e piante2 che sono riusciti a spostarsi da una parte all’altra del pianeta, quasi sempre grazie all’uomo, per approdare in terre e acque in cui riescono a sopravvivere e moltiplicarsi liberi dalle forme di controllo tipiche degli ambienti di origine. In questo modo sono riusciti a invadere spazi sottraendoli alle specie endemiche, cioè originarie degli ambienti colonizzati, costituendo una vera e propria minaccia. Si tratta, così, di una natura indesiderata perché capace di provocare danni a quella tipica del nostro territorio. Accade, per esempio, nei fiumi che attraversano le città, spesso abitati da pesci introdotti dall’uomo, come il gigantesco pesce siluro, e non da quelli originariamente presenti.

Complichiamoci la vita

Ho accennato ad alcune specie che diventano problematiche in città, dalle specie aliene alle più classiche zanzare3. Posso aggiungere i colombi urbani, che spesso diventano infestanti, e un po’ di roditori indesiderati, quali topi e ratti. Da non dimenticare molti parassiti delle piante, tra cui numerosi insetti e altri artropodi4.

Potrei continuare l’elenco, ma a questo punto è importante notare che quasi sempre quando la presenza di una specie genera allarme o apprensione, se non veri e propri danni, la causa è un’eccessiva semplificazione dell’ecosistema urbano. Il ridotto numero di specie, sia animali, sia vegetali, l’assenza di predatori o altri nemici naturali, la monotonia vegetale del territorio urbano (per esempio, viali e siepi composti da uno o pochi tipi di piante, spesso coetanee), le condizioni ambientali eccezionalmente favorevoli ad una certa specie (per esempio, la disponibilità di cibo o di ambienti rifugio) oppure sfavorevoli a un suo nemico naturale, sono tutti fattori che possono avvantaggiarla a tal punto da diventare problematica.

Quanto appena detto ci dice che per aiutare la natura urbana e rendere più vivibile le città una delle soluzioni è rendere più ricco e complesso, in una parola biodiverso, l’ambiente cittadino. Ciò significa che dobbiamo fare in modo di avere condizioni ambientali molto diversificate, per esempio un’alternanza di aree verdi e spazi urbanizzati, nelle quali far vivere un maggior numero di specie animali e vegetali.

Potrebbe sembrare che questo non sia alla portata dei bambini che, invece, possono dare il proprio contributo, soprattutto se aiutati da adulti che hanno voglia di essere complici di una piccola rivoluzione urbana.

Coltivare la città

Quando cammino in città, a causa di una mia deformazione professionale, vedo tantissimi spazi nei quali i bambini e gli adulti potrebbero coltivare piante. Dico “potrebbero” perché questo spesso non accade, sebbene negli ultimi anni le cose stiano cambiando molto.

Di quali spazi sto parlando? Penso alle scuole e ai servizi educativi, ai parchi e alle piazze, ai balconi e ai giardini. Tutti luoghi nei quali bastano un po’ di terra, che spesso c’è, il sole e dell’acqua per dare vita a un orto, un frutteto, un giardino o un piccolo bosco urbano. Ho anche la fortuna di avere amici un po’ speciali che mi hanno insegnato a vedere spazi di coltivazione dove non ci sono, ma su questo tornerò più avanti.

Il giardino o il cortile di una scuola (o di un servizio educativo), purché soleggiato e munito di un rubinetto dal quale attingere acqua, sono i luoghi giusti in cui coltivare le piante, soprattutto se c’è terra disponibile. Se non c’è o è inadatta, possiamo aiutarci con vari tipi di contenitori da riempire con terre e terricci. Non dobbiamo dimenticare, però, che siamo in un contesto educativo e che, se coltivare con i bambini è un modo per avvicinare la natura alla scuola, dobbiamo anche pensare a una natura addomesticata che sappia insegnare. Proprio per questo suggerisco di sbizzarrirsi con ortaggi, piante aromatiche, officinali, da frutto e tintorie5, non trascurando i desiderata dei bambini. Tutto questo ci permetterà di imparare che il cibo si origina dal sapere, dal fare e dalla cura, come le cose migliori della vita. Non trascuriamo, però, l’esistenza del bello e ricordiamo che qualche pianta ornamentale potrebbe trovare spazio accanto alle altre o nelle zone più difficili, come quelle ombreggiate. Non dimentichiamo nemmeno che la cura di cui necessitano le piante non è a tempo determinato e che la chiusura estiva della scuola richiede soluzioni che possono cambiare il modo stesso di interpretare lo spazio scolastico lasciandolo, per esempio, accessibile in estate o autorizzando qualcuno ad accedervi. Tanto meno dobbiamo dimenticare che l’arrivo delle piante modificherà i fabbisogni manutentivi degli spazi richiedendo più attenzione e più professionalità. Del resto ho già parlato di una piccola rivoluzione, vero?

Se a scuola e nei servizi educativi coltivare è una cosa da fare insieme ad altri bambini e con l’aiuto di insegnanti, educatori e esperti, lo scenario cambia a casa, dove serve l’aiuto di genitori, nonni e amici vari. Può esserci bisogno, infatti, di collocare una fioriera su un marciapiedi, di posizionare dei vasi su un balcone o di decidere quale angolo del giardino destinare alla nostra piccola rivoluzione. Per i bambini potrebbe anche essere necessario fare qualche lettura o guardare qualche video su internet che fornisca un aiuto tecnico. Leggere insieme agli adulti “Il giardino segreto”6, invece, potrebbe essere il modo migliore per scoprire quali incredibili avventure potrebbero scaturire dall’inizio di una piccola coltivazione, anche se non tutti avranno a disposizione gli spazi in cui è ambientata la storia che vede coinvolti Mary e Colin. Ogni bambino potrebbe, però, trovare l’entusiasmo e la determinazione di Mary per aprire le porte della nostra cultura che spesso considera i giardini come luoghi in cui bimbi e ragazzi giocosi sono addirittura indesiderati. Coltivare ortaggi e aromi sul balcone, far crescere rose o piccoli frutti nel giardino, usare le piante per creare nascondigli e percorsi adatti al gioco, potrebbero essere le premesse per portare la natura appena fuori dalle nostre porte e finestre (che sono ottimi punti di osservazione degli animali più schivi!) e, soprattutto, per frequentarla e scoprirla. Intanto, la stagionalità degli ortaggi e di qualche frutto potrebbe tornare ad essere una cosa nota e ovvia.

Se fin qui la piccola rivoluzione che vede come protagonisti i bambini è cosa semplice, quello di cui sto per scrivere richiede un po’ più di impegno da parte di tutti. Nelle città esistono, infatti, gli spazi pubblici. Strade, piazze, aiuole, prati e così via. Ne troviamo di tutti i tipi e in varie condizioni. Alcuni hanno un verde molto bello e curato, così come, all’estremo opposto, altri sono in completo abbandono. Per ognuno è possibile immaginare “una giusta misura” nella quale i bambini, insieme agli adulti, possono prendersi cura del verde divenendone i coltivatori. Probabilmente, se alcune iniziative possono partire in modo del tutto informale, strumenti giuridici come comitati e associazioni possono risultare utili per facilitare veri e propri fenomeni di adozione di alcuni spazi in cui coltivare. Personalmente sono protagonista con alcuni amici e associazioni della nascita e della vita di un orto che si trova in un parco pubblico7 ed è liberamente accessibile a tutti secondo una regola molto semplice: ognuno ha diritto in ogni momento di fare ciò che è necessario, dal piantare o seminare al raccogliere, dal togliere le erbe indesiderate al dare l’acqua, senza tralasciare momenti di contemplazione o di lettura, solitari o in clima di socializzazione con altri. Sono ormai numerosi gli esempi di orti urbani condivisi e conviviali presenti nelle nostre città e sempre più spesso tra i protagonisti della loro vita ci sono famiglie e bambini.

Se proviamo a sostituire la parola “orto” con “giardino”, siamo pronti a diventare veri e propri curatori dei giardini delle nostre città. A volte, i bambini possono farlo con gesti semplici, come dare acqua alle piante sofferenti durante l’estate o potare assieme agli adulti qualche arbusto lasciato troppo a se stesso. Qualora l’entusiasmo ci prendesse la mano, insieme ai bambini potremmo diventare veri e propri guerrilla gardeners, cioè giardinieri sovversivi che agiscono anche senza una vera e propria autorizzazione con l’intento di arricchire di piante gli spazi cittadini. Distribuire semi in un prato per arricchirlo di specie erbacee da fiore potrebbe essere un modo per iniziare, ma un giorno potremmo trovarci coinvolti nella nascita di una food forest8 urbana progettata e realizzata con i bambini del quartiere. Da qualche anno a questa parte si parla di wild-flowers, cioè di fiori selvatici con cui arricchire i prati, soprattutto dove la manutenzione è ridotta e la loro crescita è più facile. Oltre a introdurre i colori che piacciono a noi umani, essi mettono a disposizione di molti insetti, quali api e farfalle, preziose fioriture9.

Sicuramente dimentico qualcosa che si potrebbe fare, ma chiudo questo paragrafo citando l’amico Gianni Manfredini, ideatore di un progetto di guerrilla gardening molto particolare: quello delle piante volanti10. Lui vive a Milano che, come tutte le altre città del mondo, è ricca di pali, soprattutto quelli dell’illuminazione pubblica. Ecco, Gianni ha deciso di arrampicarvisi posizionando le piante all’interno di barattoli di riuso decorati che fissa proprio ai pali. Alcune piante se ne stanno lì da anni in attesa di sguardi curiosi, forse un po’ bambini, che le notino. Nessuno le cura, ma loro dimostrano che gli spazi per far crescere le piante e la natura in città sono molti di più di quelli che solitamente vediamo.

Aiutare gli animali in città

Le piante che idealmente hanno popolato la città nel paragrafo precedente hanno già dato un grande aiuto agli animali. Alcuni di essi non sono necessariamente nostri amici, come può accadere quando gli afidi colonizzano gli ortaggi o attaccano in massa le foglie di alcuni alberi da frutto. Altri, come quelli attratti dai wild-flowers, potranno divenire, loro malgrado, cibo per alcuni uccelli che troveranno nella città una risorsa in più. Riflettendo su questo aspetto e allargando il ragionamento, la scelta delle piante da coltivare potrebbe essere orientata proprio a fornire alimenti ad alcuni animali. Per esempio, rampicanti e arbusti che producono bacche, come l’edera, il biancospino, il sorbo, il prugnolo, rovi e il sambuco possono favorire la presenza di uccelli come passeri, merli, capinere, scriccioli, pettirossi e fringuelli. Essi, inoltre, possono costituire ambienti di rifugio e nidificazione. Bambini che con l’aiuto degli adulti arricchiscono gli spazi cittadini in questo modo sono veri e propri bird-gardeners, nonché persone fortunate che potranno osservare gli animali che, via via, popoleranno la città.

Un’altra possibilità di aiutare gli uccelli e gli altri animali è quella di sostenerli in momenti difficili dell’anno. Sia nei giorni più freddi dell’inverno, quando l’acqua diventa ghiaccio, sia nelle estati siccitose, abbeverare tanto gli uccelli, quanto altri animali, è dar loro un grande aiuto. Se non si ha un vero e proprio abbeveratoio, un sottovaso, una scodella o un altro contenitore riempito d’acqua, possibilmente tiepida in inverno, e posizionato in un punto che non faciliti l’assalto di predatori (es. i gatti), è una soluzione semplice ed efficace. E’ importante mantenere l’acqua pulita e reintegrarla periodicamente. Questo può essere fatto dai bambini e diventa anche un buon pretesto per uscire fuori andando incontro alla natura.

Soprattutto in inverno, può essere utile allestire e rifornire mangiatoie in cui rendere disponibili alimenti adatti, quali vari tipi di semi (arachidi al naturale sgusciate, girasole, pinoli, noci, nocciole, miglio, panìco, canapa, avena, frumento, mais), eventualmente tritati e rigorosamente non salati o piccanti, e palle di grasso che possono essere appese agli alberi e agli arbusti. Le palle di grasso, importanti per fornire alimenti calorici durante i giorni più freddi, si trovano in commercio, ma è possibile realizzarle con un mix di margarina o strutto, biscotti secchi, arachidi non salate, semi di girasole, uvetta e altri semi. In tutti i casi, poiché gli uccelli sono abitudinari, quando si inizia la somministrazione va proseguita con costanza.

Posizionare nidi artificiali per gli uccelli non è facile, soprattutto per i bambini, e richiede una certa competenza nell’individuare le specie presenti, nello scegliere il nido migliore (non tutti quelli in commercio sono adatti) e nel posizionarlo per cui è assai difficile avere successo. Seguendo le istruzioni si può tentare, invece, di sostenere la presenza dei pipistrelli, efficacissimi insettivori, mediante il posizionamento di bat-box, cioè veri e propri rifugi per questi mammiferi volanti. Analogamente, si possono posizionare casette artificiali per i ricci, anche realizzandole in casa. Un valido aiuto ad alcuni animali è poi, quello di lasciare degli spazi incolti, con erbe alte o creare aree umide, quali laghetti e piccoli stagni che diverranno luoghi privilegiati per l’osservazione degli animali da parte dei bambini.

Infine, ma anche qui non ho certo esaurito tutte le possibilità, può capitare di trovare animali feriti o uccelli caduti dal nido. Non è facile sapere come comportarsi, né riuscire a salvarli, ma tanto alcune associazioni e enti locali, quanto la LIPU11 possono costituire dei riferimenti per agire nel modo migliore contribuendo a salvare esemplari di specie rare o addirittura a rischio di estinzione.

Sensibilizzare la città

Quello che abbiamo visto fin qui è ciò che bambini, accompagnati da adulti disposti a collaborare, possono fare direttamente, ma rimane qualcosa di molto importante: coinvolgere altre persone. Questo per almeno due motivi. Il primo è che, se interveniamo in più luoghi e in tanti, gli effetti dei nostri interventi si amplificano grazie alla progressiva costruzione di un mosaico ambientale cittadino sempre più favorevole alla biodiversità. Il secondo è che, rendendo tutti più consapevoli di come la città possa migliorare aiutando la natura, è più probabile creare un movimento di opinione che possa spingere su questa strada le amministrazioni locali o altri soggetti che possono avere un ruolo importante nell’arricchire la biodiversità urbana. In questa azione di sensibilizzazione i bambini non sono solo molto efficaci, ma costituiscono una vera e propria rete che raggiunge tutti i meandri della nostra società. Hanno, cioè, la capacità di portare il messaggio di sensibilizzazione proprio a tutti gli adulti che hanno potere decisionale. Non è una cosa da poco per la piccola rivoluzione portata avanti dai bambini agevolatori di natura in città.


Sitografia di riferimento

www.facebook.com/groups/GuerrillaGardeningItalia/

www.guerrillagardening.org

www.ortiscolastici.it

www.lifeasap.eu

www.lipu.it

www.effettofarfalla.net


Bibliografia di riferimento

Baldassarri W., Leone M., Moretto E., Il giardino per le farfalle – manuale di istruzioni per l’allestimento e la cura di aiuole, bordure, prati, siepi e terrazzi, Amici della terra, 1991

Bertoncini E., L'orto delle meraviglie, MdS editore, Pisa, 2015

Bertoncini E., Orticoltura (eroica) urbana, MdS editore, Pisa, 2014

Bertoncini E. (2017), “Lezioni dalla natura (orti didattici e scolastici in ambito urbano)” - in ACER – Parchi, verde attrezzato, recupero ambientale Anno 33 – n.3

Bertoncini E. (2015), “Orto e ortaggi nel mondo educativo” - all'interno dell'approfondimento “Col cuore fuori” curato da M. Guerra in Bambini Anno 31 – n.9

Bridgewater A. & G., Il Giardino Naturale, Editore Il Castello, Marzo 2009

Gioggi A., Taffon D., Orto Amico a scuola – imparare e crescere dalla terra – Edito da Fondazione Campagna Amica

Guerra M. (a cura di), Fuori, suggestioni nell’incontro tra educazione e natura, Franco Angeli Editore, Milano 2015

Romagnoli A., Birdgardening - Come realizzare il giardino degli uccelli, Editore Il filo verde di Arianna, Marzo 2016

Muller G., La vita segreta dell'orto, Babalibri Editore, Milano 2013

S. Battisti, E. Bertoncini, C. Margaritelli, A. Micheletti, M. Moroni, L. Valenti - Evviva l'orto che ci fa sporcare - la biodiversità agraria delle Marche entra a scuola, Regione Marche e ASSAM, Ancona 2017


Note al testo

1Tra gli altri le nutrie e i gamberi della Lousiana

2Tra gli altri, alberi come la robinia e l’ailanto

3In realtà alcune zanzare, come la zanzara tigre, sono tutt’altro che classiche essendo arrivate pochi anni fa da altri continenti.

4Gruppo di animali invertebrati a cui appartengono gli insetti, gli aracnidi, i miriapodi e i crostacei

5Si tratta di piante da cui si ottengono coloranti naturali

6Romanzo per ragazzi scritto nel 1911 da Frances Hodgson Burnett, narra l’evoluzione di un’amicizia tra due bambini grazie alle cure fornite a un giardino divenuto inaccessibile a causa di un grave incidente.

7Si tratta dell’Orto del Giardino della Lumaca di Pietrasanta (LU). Per saperne di più: www.ortodelgiardinodellalumaca.it

8Un’area coperta da alberi, arbusti, cespugli, rampicanti e piante erbacee in cui è possibile raccogliere frutti, foglie, fiori, radici e legna utilizzabili come alimento, mangime o per preparazioni erboristiche

9Sul sito web del progetto “Effetto farfalla” (www.effettofarfalla.net) è possibile scaricare la guida “Il giardino delle farfalle”.

10Per saperne di più: http://piantevolanti.blogspot.it/

11http://www.lipu.it/gli-uccelli-e-la-natura/sos-animali-feriti.


[Questo articolo è uscito alcuni anni fa a mia cura sulla rivista Bambini]