Artisti (quasi) a propria insaputa, con la modestia di chi assolve ad un dovere che va oltre ogni ragionevole orizzonte temporale
Alpe Pirlo, su una pendice come tante delle Alpi Retiche, qualche giorno fa.
"Scusate, posso scattarvi qualche fotografia?". La risposta alla mia domanda è un semplice gesto composto da un sorriso e una mano che si alza, nemmeno una parola. Un gesto che interrompe il moto di un rastrello che non si ferma da ore, da quando si è spenta la falciatrice. Poi una voce quasi assente a se stessa dice alla compagna di lavoro qualcosa che suona come "Ce le fanno tutti senza dirci niente, che strano che è questo che ce lo chiede!". Parole pronunciate mentre il rastrello procede avanti e indietro facendo nascere piccoli mucchi di erba appena tagliata, mani e braccia che sembrano muoversi quasi senza sapere il perché. Un movimento che sembra involontario, proprio come quello del cuore, organo a cui ci sforziamo di attribuire sentimenti, ma non ragione, non pensiero. Cuore che pulsa sapendo che quello è il suo dovere, ma senza sapere perché vadano alimentati un cervello e molti altri organi, un organismo che fa cose nel mondo. Quali siano queste cose non sembra contare, salvo che di tanto in tanto le contrazioni aumentano senza una causa fisica, solo perché un'emozione trascina il sangue chissà dove. Quelle braccia sembrano muoversi allo stesso modo. Muovono, di fatto, un pennello che rinnova l'affresco dell'Alpe, un pennello che si muove per volontà di due artisti apparentemente inconsapevoli, modesti come chi assolve solo ad un dovere, niente più. Dico inconsapevoli anche se, un po' come "L'uomo che piantava gli alberi", sembrano saperne più di tutti e danno l'impressione di aver trovato un bel modo di essere felici: quello di custodire oltre ogni ragionevole orizzonte temporale, un'opera d'arte nata secoli fa.
(se non vedi il video in questo spazio, segui questo link: https://youtu.be/Vycb0zyZpqM)
L'agricoltura, un'arte sacra
Mi sono mosso nell'affresco dell'Alpe Pirlo con lo zaino appesantito da un libro che sta influenzando il mio sguardo sulla vita: "Walden, ovvero vita nei boschi". Credo che la gran parte dei miei coetanei non lo abbia letto, ma conosca bene un suo passo, pur rimodulato nella sua versione cinematografica, cioè questo: "Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto". Sono le parole di Henry David Thoreau forse più note al grande pubblico, ma non le uniche. Ce ne sono altre che aiutano a riflettere, quelle che seguono:
La poesia e la mitologia dell'antichità suggeriscono, almeno, che un tempo l'agricoltura era un'arte sacra; ma essa è ora perseguita da noi con fretta e trascuratezza irriverenti, essendo il nostro solo obiettivo avere grandi poderi e grandi raccolti.
Leggerle e rileggerle lungo i sentieri che muovono noi escursionisti sulle Alpi Retiche sembra indispensabile per almeno due buoni motivi. Il primo, più immediato, è che quella fretta e trascuratezza irriverenti sembrano albergare anche nei nostri passi, sempre agili nella ricerca di un qualcosa che, se coglie la nostra attenzione, al massimo entra nel novero dei nostri scatti fotografici, alberga nelle velleità di fotografi senza tempo, sempre di fretta, attenti a quel che si vede, ma quasi mai veramente intenti a guardare. Il secondo, decisamente più importante, è che a metà del diciannovesimo secolo Thoreau aveva visto che ciò oggi stentiamo a riconoscere: una certa declinazione dell'agricoltura le avrebbe tolto la sacralità di un'arte per ridurla nel miraggio di grandi raccolti che, se assicurano una vita dignitosa, forse tolgono un ruolo a chi la pratica e la delizia dello sguardo a molti fruitori dei luoghi in cui si svolge. Sì, l'Alpe Pirlo è opera d'arte, ma quanti paesaggi agricoli moderni ci lasciano storditi, un po' come accade di fronte a quelle installazioni di arte moderna che vogliono farci riflettere, provocarci, ma non sempre ci riescono? E quante volte lo stupore di fronte ad affreschi avvelenati da una certa agricoltura è frutto delle campagne di marketing o di una nostra complice ignoranza? Quante volte ci sembra arte agricola ciò che in sostanza è un semplice impianto produttivo, una zona industriale in cui cemento e acciaio sono sostituiti da fusti e zampe? Quante cartoline per turisti finiamo per riconoscere in un paesaggio che mima un affresco senza esserlo, talora con la feroce superbia di un Qr-code che sembra voler comunicare quando, invece, è illeggibile ai nostri occhi?
La poesia in soccorso della multifunzionalità
Queste domande non possono che sollecitare l'agronomo che ancora vive in me, sebbene stordito di fronte a un'agricoltura troppo spesso lontana dalla poesia, dalla sacralità dell'arte agricola. Si materializza così davanti a me la parola "multifunzionalità", quella che letta da molti eruditi dell'agricoltura ancora oggi rimane un mistero da comprendere, una definizione che sembra sfuggire al produttivismo che connota l'idea moderna di agricoltura. Ecco cosa dice l'OCSE, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in merito:
Oltre alla sua funzione primaria di produrre cibo e fibre, l’agricoltura può anche disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità, gestire in maniera sostenibile le risorse, contribuire alla sopravvivenza socio-economica delle aree rurali, garantire la sicurezza alimentare. Quando l’agricoltura aggiunge al suo ruolo primario una o più di queste funzioni può essere definita multifunzionale.
Disegnare il paesaggio, almeno ai miei occhi, è un'espressione riduttiva. Avrei preferito dipingere o scolpire, gesti umani che sembrano dare vita a ciò che vivo non è, un po' come i movimenti dell'uomo che coltiva rendono arte ciò che risponde ai bisogni fondamentali delle persone.
Lo scrivo ed esito un po'. Quali sono questi bisogni fondamentali? Se è vero che noi del mondo fortunato mangiamo tre volte al giorno, ci è davvero sufficiente, oltre che necessario? Qualcuno mi ha detto che un bisogno innato dell'umanità è narrare. Per questo abbiamo un linguaggio, leggiamo, scriviamo, abbiamo inventato il teatro, il cinema e i fumetti. Non è forse rispondere a questo bisogno il movimento perpetuo di quel rastrello, non è forse infondere poesia in un affresco senza fine, proprio perché vivo? E non ce lo dice così bene Franco Arminio nel suo "Cedi la strada agli alberi"?
Abbiamo bisogno di contadini,
di poeti, gente che sa fare il pane,
che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita,
ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, al sole che nasce
e che muore, ai ragazzi che crescono,
attenzione anche a un semplice lampione,
a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere
più che aggiungere, rallentare più che accelerare,
significa dare valore al silenzio, alla luce,
alla fragilità, alla dolcezza.
E cosa fa quel rastrello se non togliere, rallentare, dar valore al silenzio, alla luce che carezza i mucchi dal profumo erboso, alla fragilità di un luogo magico, alla dolcezza che ispira lo sguardo che vi si posa?
Per tutto questo e molto altro che è difficile tradurre in parole, nasce il mio grazie a chi, quotidianamente, si prende cura dei nostri affreschi di paesaggio.
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* so bene che questo numero non esiste, ma lavoro molto con i bambini e so che una licenza poetica può riguardare tutto, anche i numeri.
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