Negli ultimi anni, lavorando come formatore, mi trovo ad affrontare una difficoltà di non poco conto. Mi riferisco alla presenza nei corsi di formazione finanziati dal Fondo Sociale Europeo di persone provenienti da altri continenti e, in particolare, dall'Africa. Mi correggo: la difficoltà è averli insieme ad altri partecipanti nati e vissuti in Italia o almeno in Europa. Questa promiscuità, se per certi versi è un'enorme ricchezza, da altri punti di vista genera una situazione comunicativa assai complessa perché, spesso, è come lavorare con due o più gruppi di persone presenti nella stessa aula.
La prima difficoltà da affrontare è, ovviamente, linguistica. Gli africani spesso parlano più lingue, ma il loro italiano, soprattutto se si tratta di richiedenti asilo o di persone arrivate da pochi anni, non è adeguato a seguire un corso in materia di agricoltura e ambiente. Se con loro risulta relativamente facile conversare dei fatti del quotidiano, seguire una lezione su temi tecnici, anche non troppo approfonditi, alza nuovamente la barriera linguistica. Io provo ad aiutarmi con l'inglese, ma a quel punto quello deficitario in termini di lingua diventa il docente. Stendiamo un velo pietoso sul fatto che non parlo il francese, mentre molti di loro lo parlano benissimo. Fin qui tutto bene, ma le difficoltà non mancano mai e quello che accade è che, quando semplifico e rallento il mio italiano, divento una sorta di robot stupido agli occhi degli italiani. Spesso questi ultimi accettano di buon grado la situazione che viene a crearsi e, anzi, mi danno una mano, ma è del tutto evidente che la loro partecipazione al corso si snatura e che per tutti diventa difficile raggiungere gli standard di preparazione richiesti per superare test ed esami che certificano le competenze. Insomma, la situazione è complessa e richiede non solo degli adattamenti comunicativi, ma anche una complessiva revisione delle strategie di accompagnamento del gruppo in formazione.
Una delle domande che mi faccio è questa: il sistema della formazione professionale finanziata non dovrebbe interrogarsi sull'origine di queste difficoltà e su possibili strategie per risolverle a monte?
(Trifoglio pratense - CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=196821) |
Sulle prime mi sono detto che se la situazione si fosse ribaltata geograficamente, cioè se fossimo stati in un paese dell'Africa occidentale a parlare di piante da foraggio, anche io avrei avuto difficoltà poiché ignoro quali piante crescano in quelle zone e siano adatte allo scopo, quindi mi è parsa naturale la difficoltà dei miei studenti africani. Però a stonare in aula era la conoscenza degli italiani. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se, anziché chiedere del trifoglio, il mio studente avesse chiesto lumi sul loietto o sulla Poa pratensis. Ragionevolmente, anche gli studenti italiani si sarebbero trovati in difficoltà.
(foto tratta da www.eticamente.net - clicca sull'immagine per leggere l'articolo) |
Se proviamo a far evolvere la riflessione, possiamo dire che chi nasce e cresce in Italia riceve una sorta di alfabetizzazione legata al contesto ambientale che lo rende competente e capace di muoversi, anche competenze generiche e di base, nel mondo dell'agricoltura e dell'ambiente. La stessa cosa accade a chiunque nasca e cresca in un qualsiasi ambiente, ma quando la persona si sposta altrove, le difficoltà non sono solo linguistiche o di cultura generale, bensì di alfabetizzazione legata al contesto ambientale.
Questo si traduce nel fatto che, per accogliere efficacemente nei nostri corsi persone vissute altrove, risulta necessario progettare percorsi formativi ad hoc o, almeno, fare una formazione propedeutica che supplisca al deficit di alfabetizzazione agli ambienti italiani, più che alla lingua italiana.
Si tratta di una riflessione avente natura prettamente provvisoria, ma proprio non riuscivo a non condividerla con chi ha la pazienza di leggere questo mio blog.
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