Una luce che brilla negli occhi

Lavoro nel mondo della formazione professionale da quando lavoro. Anzi, il mio primo vero incarico è stato proprio relativo ad un corso di formazione. Eravamo negli anni '90, sul finire, e io dovevo ancora mettere in atto tutti gli errori possibili per un formatore. Giuro che ci misi un grande impegno e riuscii a portarmi avanti su questa strada. Per correggere il tiro o, almeno, per stare lungo il sentiero migliore, nel tempo ho partecipato a varie iniziative in cui a formarsi, nella qualità di formatore, ero io. Tra queste un bellissimo corso organizzato da ARSIA e Kiosco nel lontano 2002. Gli obiettivi del corso, formare tecnici addetti al tutoraggio degli imprenditori agricoli, andarono completamente falliti, anche perché non fu mai attivata la misura del Piano di Sviluppo Rurale che avrebbe dovuto finanziare l'uso dei tutor, ma da quelle 80 ore io uscii tras-formato.

In particolare, portai con me molti strumenti inerenti la comunicazione tra formatore e aula, intesa come gruppo di persone che hai davanti. Quegli apprendimenti hanno modificato il mio modo di impostare una relazione con chiunque. Ancora più importante, però, fu un altro concetto, cioè quello secondo cui l'obiettivo della formazione è cambiare i comportamenti di chi segue il corso. Cito questa cosa all'inizio di quasi tutte le mie docenze e per farlo uso un esempio chiarificatore, anche se non mi coinvolge direttamente, cioè il seguente: se alla fine di un corso sulla sicurezza sentiamo il bisogno intimo di agire riducendo il rischio, per esempio non riusciamo a non indossare i dispositivi di protezione individuale (d.p.i.), il corso ci ha formati; se, viceversa, sappiamo cosa dovremmo fare, per esempio indossare i d.p.i., ma non lo facciamo, il corso ci ha solo istruiti. Per dirla più direttamente, il corso è stato un fallimento, come spesso accade per questo tipo di corsi.
Senza che questo mi riesca sempre e a costo di risultare impopolare e finanche antipatico, il mio tentativo è sempre questo: cambiare i comportamenti di chi partecipa ai corsi in cui sono docente.

Quel corso disse anche qualcosa di diverso: i miei occhi si illuminavano e io vivevo di entusiasmo e partecipazione in certi momenti, mentre arrivavo a sbadigliare in altri. Fu così che decisi che, da formatore, avrei sempre cercato di carpire negli occhi di chi mi sta di fronte quella scintilla. Devo ammettere che capita davvero raramente, soprattutto perché non è facile essere all'altezza come docente e perché molte persone partecipano ai corsi senza motivazione (vogliamo parlare dello spirito con cui si affronta la "formazione obbligatoria"?) o nella convinzione di sapere già tutto sull'argomento (vogliamo parlare della nostra presunzione quando facciamo un corso obbligatorio?).

Negli oltre 20 anni in cui ho svolto docenze ho toccato gli argomenti più disparati (vorrei dire anche "disperati"), spesso su contenuti standard decisi da terzi, dal legislatore al progettista annoiato che fa copia - incolla da un corso all'altro. Fortunatamente, negli ultimi anni godo del privilegio di lavorare come formatore in corsi in cui porto le mie esperienze nel mondo dell'educazione. Spesso si tratta di corsi in cui ho la possibilità di progettare ed agire esattamente come voglio. A volte ne sono anche il venditore, altre mi è riconosciuta l'autorevolezza dell'esperto e mi si dà carta bianca. Si tratta di un privilegio che ha il suo prezzo, naturalmente, e ogni errore brucia esattamente come la peggiore delle escoriazioni. C'è, però, l'ebbrezza del cavalcare l'imprevedibilità che si sovrappone alle tue scelte, ai tuoi progetti, alle tue idee. E c'è lo sguardo di chi ti sta davanti con o senza la scintilla. E' una delle parti più belle del mio lavoro. Fanno eccezione i momenti in cui lavoro con i bambini, soprattutto con quelli del nido. Con loro a tutto questo si aggiunge lo stupore dell'esperienza prima e unica (fino a quel momento) di quegli esseri che Mariangela Gualtieri definisce nostre divinità domestiche. Quei momenti sono insuperabili e possono essere disturbati solo dagli adulti presenti.

Ci sono casi in cui la committenza, nel caso specifico di cui parlo il Comune di Prato (PO) per il tramite di Cemea Toscana, si fida fin troppo di me e, dopo la fortuna di un primo corso sul tema degli orti e giardini educativi, mi chiede di fare una nuova proposta per la formazione delle educatrici e degli educatori dei servizi privati. Io decido così di avventurarmi fuori dall'orto e dal tema del coltivare in chiave educativa e vado oltre la soglia, cercando di realizzare un corso capace di mostrare le opportunità educative offerte dalla natura e dai suoi materiali. Si sa come vanno certe cose: in fase di progettazione uso espressioni come outdoor education, magazzino creativo, atelier diffuso e biblioteca oggettuale. In quel momento, le prendo in prestito da autori di libri come "Fuori", "Materie intelligenti" e "Outdoor education". Poi, nel tempo che intercorre tra la proposta e la realizzazione (di ben due edizioni parallele!) la testa ci lavora su e rielabora, adatta e plasma tanto quelle parole, quanto i modi in cui dare sostanza e sviluppo ai buoni propositi progettuali. Fortuna vuole che nelle settimane precedenti l'inizio del corso mi passi per la testa di visitare una mostra e vedere un film.

La prima è dedicata allo street artist Banksy è mi porta a proporre una provocazione educativa mutuata da una sua celebre frase, che è questa: "Molti genitori sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa per il loro figli, tranne lasciarli essere se stessi". Io la trasformo in "molte delle persone che lavorano in educazione sarebbero disposte a fare qualsiasi cosa per i bambini con cui lavorano, tranne lasciare che apprendano ciò che vorrebbero". La provocazione mi serve per spostare il soggetto dell'agire educativo, almeno in alcuni frangenti e in relazione ai materiali naturali, dall'adulto al bambino, pur con tutte le implicazioni organizzative e di altro ordine che ne derivano.

L'altro incontro fortunato è quello con un dialogo tra Gauguin e Van Gogh nel film "Sulle soglie dell'eternità" dedicato alla vita del secondo. In quel dialogo Gauguin risolve, almeno in parte e in via funzionale, una domanda che mi attanaglia da anni quando mi confronto, da persona con una formazione scientifica e agronomica quale sono, con il mondo educativo. Quest'ultimo vede natura laddove io vedo l'artificio prodotto dall'uomo sulla o con la natura. E io vedo natura dove quel mondo non la vede. Ecco che con "senza i nostri occhi non esiste natura e nessuno vede il mondo allo stesso modo" Paul Gauguin mi dà un buon strumento per presentarmi davanti alle educatrici iscritte ai corsi e dir loro "la natura è una cosa diversa per ciascuno di noi". Se è chiaro questo, non esiste equivoco sulla naturalità di spazi e materiali e possiamo andare avanti.

Non rimane che fare delle proposte concrete, ma fin dalla prima lezione non sono certo che la formula possa funzionare. Del resto, non l'ho mai collaudata. In una vita attraversata dal rischio e caratterizzata solo dalla certezza della sua fine, almeno per come la definiamo molti di noi esseri terreni, non mi rimane che rischiare.

Il primo incontro, oltre all'introduzione, verte sui concetti appena espressi e guida le partecipanti fuori dalla struttura che ci ospita, prima in giardino, poi verso i parchi urbani vicini e nel fiume Bisenzio. L'obiettivo, svelato col contagocce, è raccogliere materiali naturali e farne una collezione, forse un piccolo museo, da mostrare e raccontare agli altri. La mattinata è evidentemente piacevole, ma gli occhi non brillano. E' un copione che va in scena in entrambe le edizioni del corso. E' chiaro che quel mio lasciare delle cose in sospeso, come l'obiettivo finale, dopo le provocazioni descritte in precedenza crea aspettativa, ma questa sta andando delusa. Credo che nel calcio si parli di zona Cesarini e per me sono davvero gli ultimi minuti dell'incontro a risultare decisivi: all'improvviso, mentre raccontiamo quelle raccolte di materiali materiali che esponiamo in modi che io ho appreso da Sara Vincetti nel mondo di Bambini e Natura, succede qualcosa.

La maggior parte degli occhi iniziano a brillare perché, oltre a suggerire delle modalità operative inusuali e a dare uno sguardo diverso su quelle mani, secchiellini e tasche piene di materiali naturali prodotte dai bambini, emerge il potere degli oggetti di natura nel fissare ricordi dell'infanzia nella mente adulta. La maggior parte delle educatrici non riesce a dissociare ciò che ha raccolto dai ricordi d'infanzia o della propria vita. Emergono i volti dei nonni, degli amici, dei genitori da giovani, del vicino di casa e così via. Ecco che i materiali naturali divengono mediatori nel generare ricordi e la funzione dell'educatrice viene nobilitata nel proprio agire. Gli occhi che brillano producono un effetto che stravolgerà il corso: io, il docente, scopro che vale la pena di osare di più e il power point preparato con tanto impegno vola via per tornare solo in occasione dell'ultimo incontro, ma stampato su carta e usato per sottolineare i momenti topici di una mattinata di formazione in cammino.

Nel mezzo accade di tutto: si collezionano materiali, si scavano buche per ospitarli, nascono montagnole, si dà vita a isole ortive e così via. Gli occhi continuano a brillare fino alla fine e io capisco che sto vivendo uno di quei corsi in cui a formarsi è (anche) il formatore, ma c'è una mattinata che, in entrambi i corsi, produce qualcosa di davvero speciale. Cogliendo la disponibilità del coordinamento pedagogico del Comune di Prato, decido di svolgere una delle mattinate di formazione nel Parco di Galceti, un parco molto speciale alle porte della città. Alla base della mattinata ci sono due o tre idee. La prima è quella che fuori, oltre la soglia, si può fare anche quello che per tradizione e abitudine si fa dentro, basta accogliere l'imprevedibilità e imparare a stare fuori, togliere questa esperienza dallo straordinario per portarla nel quotidiano. La seconda è quella che per stare bene fuori è necessario organizzarsi un po'. La terza è che i luoghi di natura hanno una propria attitudine a guidarci nel da farsi. La scommessa è grande e fare queste cose in gennaio e febbraio alza decisamente l'asticella della sfida. Tuttavia, per entrambi i corsi, le mattinate sono soleggiate e tiepide, addirittura più calde di quanto previsto dai vari servizi meteo.

La mattinata inizia camminando per il parco in cerca di materiali naturali. Ci sono, però, delle prescrizioni. Per esempio, devono stare all'interno di una scatola da scarpe che le partecipanti hanno portato con sé e, alla fine, non potranno essere più di dieci. Serviranno poi nelle successive lezioni. Salendo sulla collina si raggiunge una sorta di anfiteatro pietroso e disordinato. E' un luogo che invita a sedersi chi, come noi, va li per fare delle letture condivise, ma che per alcuni potrebbe costituire una perfetta latrina. A noi accade di nobilitarne l'uso. Alla richiesta di portare delle cose da leggere ad alta voce, infatti, la risposta è meravigliosa e persone che a malapena si conoscono leggono cose che le investono anche sul piano personale. Questa volta non tutti gli occhi luccicano perché molti lacrimano. Succede per due volte, in entrambe le edizioni del corso. Io sono stupefatto e incredulo. Avevo trovato quel luogo durante un fugace sopralluogo e, proprio lì, avevo sentito l'impulso della lettura. Così era nata l'idea. Quello che è successo ha lasciato un segno in molti dei presenti.
Non basta: si sale un po' fino a raggiungere un luogo da cui si vede la città viva e pulsante che stride con la morte che ha portato via la pineta. Siamo in un vero e proprio cimitero degli alberi che sembra esser stato bombardato da una pioggia di pietre di varie dimensioni. E' lì che dal mio zaino escono biscotti e un thermos di tè caldo. Gli occhi si illuminano di nuovo, ma questa volta è semplice gratitudine che io accompagno dicendo che "per star fuori basta organizzarsi". I sorrisi mi ripagano.


Arriva, quindi, l'invito ad agire: i materiali disponibili in loco diventano oggetti per realizzare un'installazione, un gioco o lanciare un messaggio. I luoghi sanno fare grandi cose e così accadono fatti abbastanza speciali. C'è chi si trova inventore dell'aratro mentre trasporta un grande pezzo di legno, chi evoca episodi legati alle religioni, chi fa apparire animali moderni e preistorici. Soprattutto, nessuno si tira indietro e gli occhi continuano a brillare.


Il rientro a valle si divide tra silenzi di riflessione e considerazioni su ciò che è accaduto e non ci sono più un docente e delle educatrici (e un educatore!), ma persone che dialogano sulla relazione con i luoghi, sull'unicità di alcune esperienze e sui modi nuovi di agire sia nella vita privata, sia in quella educativa.

Dopo i saluti faccio caso ai miei occhi: brillano e io da quel momento non sarò più lo stesso nel fare formazione, almeno su quei temi.









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